Gerusalemme – Città negata

Sumaya riguardava il percorso da fare, dopo aver passato il checkpoint. In circa 15 minuti sarebbe arrivata all’ambasciata americana e avrebbe potuto richiedere il visto per gli Stati Uniti. Un taxi la aspettava fuori dal checkpoint, tutto era stato studiato nel dettaglio. Aveva ricevuto un permesso di 3 ore per entrare a Gerusalemme, non un minuto più. Doveva farcela.
Alle 9 doveva essere al checkpoint 300 a Betlemme. Era partita da casa sua, al Sud, tre ore prima, con un largo anticipo. Come previsto, diversi controlli israeliani l’avevano trattenuta, e invece di mezz’ora aveva impiegato quasi due ore per arrivare, ma finalmente Sumaya stava passando i controlli. Osservava gli ufficiali israeliani guardare il suo permesso, esaminarlo approfonditamente. Dietro di loro, un orologio scandiva inesorabile i minuti: tempo che non avrebbe potuto usare a Gerusalemme.

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Prigione di Ofer - Detenzione amministrativa

Era stata una giornata come le altre per Ghassan. Niente in particolare era successo, se quella che lui chiamava normalità poteva realmente essere definita tale. Alcuni coloni avevano lanciato pietre contro le case del villaggio, spaventando i bambini che giocavano fuori dalla porta, e successivamente alle macchine palestinesi che percorrevano la Bypass Road, la strada israeliana che collega tutte le colonie dell’area.
Ghassan aveva visto crescere, giorno dopo giorno, il numero di colonie e avamposti, li aveva documentati, aveva trascorso le sue giornate tra i campi vicino a Nablus, in quei piccoli villaggi che durante la raccolta delle olive diventano il centro della Palestina.
Era a casa coi suoi genitori a guardare la televisione, quando i soldati sono entrati. Non era la prima volta, nei suoi trent’anni Ghassan aveva vissuto quella scena già diverse di volte.

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At-Tuwani – Minorenni palestinesi nelle carceri israeliane

“Correte al Sumud Freedom Garden, ci sono i soldati!”, ci aveva urlato un ragazzino.
Troviamo Hafez, suo fratello e suo figlio Amoudi con qualche soldato. La situazione sembra tranquilla, quando arrivano altre camionette dell’esercito. Il comandante inizia a fare domande ad Amoudi, in maniera insistente e scortese. Un soldato si avvicina minaccioso ai ragazzini, sta palesemente cercando la provocazione. Non facciamo in tempo a scambiarci due parole tra volontarie, che due soldati prendono per il braccio Hafez e lo trascinano via. Le sue figlie cominciano ad urlare.
La situazione degenera in una frazione di secondo, ci giriamo di scatto nel sentire altre urla: le mani di due soldati sono sul collo di Amoudi come tenaglie. Ci si serra la gola nel vedere il piccolo Hussem che corre dietro la jeep che sfreccia via con suo padre, ammanettato e bendato, all’interno. Arrabbiate, fermiamo un soldato che gli corre incontro e lo afferra per un braccio quasi torcendoglielo. A volte è difficile ricordarsi che c’è un uomo sotto quella divisa.
Tutto si conclude con la stessa rapidità con cui la situazione si era aggravata. Ci guardiamo attorno smarrite.

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Khan Al Ahmar - Piano E1

Hussem osserva la vita che lo circonda: c’è chi parla vivacemente, chi gioca a carte, chi balla, chi sorseggia il tè, chi parla di fronte a una telecamera rispondendo a giornalisti e inviati televisivi.
C’è un continuo via vai di persone giorno e notte per non lasciare mai scoperto il presidio che ha preso vita all’ingresso del villaggio, proprio accanto alla “Scuola di Gomme”, che dalla sua costruzione è diventata il simbolo di Khan al Ahmar.
Ormai è sera e la giornata è trascorsa tranquilla: niente bulldozers, niente polizia, niente esercito, niente arresti. Forse le IDF (Forze Armate Israeliane) hanno deciso di concedere un giorno di tregua per permettere a Khan al Ahmar di leccarsi le ferite dopo la giornata di ieri, o forse avevano altro da fare.
Hussem si alza dalla sedia tutto dolorante. Si sposta sotto la luce artificiale di un faro e si alza la maglietta. Il livido sul fianco destro si sta allargando, sta diventando violaceo e decisamente più doloroso, tanto che ormai è diventato faticoso alzare il braccio destro.

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Umm Al Khair -   Vicini pericolosi

Si sente un tonfo nel cuore della notte.
Poi un altro.
Un altro ancora.
Qualche bambino inizia a piangere. Ci svegliamo di soprassalto. Uno ad uno gli adulti si precipitano fuori dall’uscio, si guardano ancora assonnati.
Nel frattempo, i colpi si fanno sempre più forti, le pietre lanciate più grosse e raggiungono le prime case e gli ovili. Il villaggio è ormai sveglio, terrorizzato e stremato da notti insonni per via di questi continui attacchi. Alle 2 esatte iniziano a piovere pietre dalla vicina colonia. Da settimane.
La gente corre verso la tenda degli internazionali, posta proprio vicino alla recinzione che separa il villaggio palestinese dalla colonia. Con i volti esausti corrono alla ricerca di una risposta. Qualcuno urla di chiamare la polizia. Una pietra per poco non colpisce in pieno un anziano signore. Proviamo di nuovo a sporgerci dalla tenda per individuare il colono, ma ci ritiriamo subito quando un sasso viene scagliato proprio vicino a noi.
I colpi si fermano per un attimo.

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Sarura - Sumud Freedom Camp

Hammoudi esce dalla grotta e guarda il panorama intorno a lui: il tramonto dipinge le colline di un colore violaceo, il vento soffia delicato diffondendo il profumo del narghilè.
Sembra un momento magico se non fosse per l’avamposto israeliano che con arroganza rompe l’armonia di quel panorama. Si trova in linea d’aria proprio davanti a Sarura, come se volesse rendere impossibile alle comunità palestinesi dell’area dimenticare di vivere sotto occupazione.
Lo sguardo di Hammoudi si sposta sulla grotta accanto e sul quel che rimane del bagno costruito appena più in là dopo che i bulldozers israeliani lo hanno demolito.
È la terza volta che lo rimettono insieme.
Nei prossimi giorni lo sistemeranno, e probabilmente fra pochi giorni, settimane o mesi, i bulldozers torneranno.

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Ein Rashash – Aree vietate ai palestinesi

Bilal, seduto accanto a suo figlio, osserva il gregge pascolare.
È ormai pomeriggio quando riconosce il rumore della jeep dell’esercito che si spegne.
Quasi contemporaneamente due coloni con il loro gregge scendono dal pendio dell’avamposto di Malachei Ha Shalom, appena sopra di loro.
Coloni e militari si fanno un cenno di saluto.
Le greggi si disperdono e iniziano a pascolare.
Tre militari si avvicinano a Bilal.
Uno dei tre chiede di mostrare il permesso per pascolare su quella terra: quella è un’area di addestramento militare il cui accesso è vietato senza autorizzazione.
Bilal un tempo  aveva provato a chiedere l’autorizzazione ma gli era sempre stata negata.
Già era assurdo dover chiedere un permesso per accedere alla propria terra, ancora più assurdo che questo permesso non fosse rilasciato per “ragioni di sicurezza”.

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Betlemme/Ramallah – Strade proibite

Khaled ha un esame all’università oggi.
Sebbene Ramallah non sia così lontana da casa sua, poco fuori Betlemme, la sveglia suona puntuale alle quattro di mattina.
Il sole ancora non è sorto, quando mette le scarpe e prende lo zaino, con dentro i pochi beni necessari per quella giornata.
Durante il primo tratto di strada, Khaled ripete tra sé e sé gli argomenti su cui verterà l’esame: ha scelto giurisprudenza, una scelta che i suoi genitori subito non avevano compreso, avrebbero preferito altro, ma che ormai sta portando a conclusione.
Ancora un anno e avrò finalmente una laurea in mano, si ripete Khaled, tra una definizione e l’altra di Diritto.
Quando arriva sulla strada principale, i primi due service (minibus) che passano sono pieni.
Lavoratori, studenti, chiunque si muove a quell’ora di mattina, e trovare un service non è mai facile. Avrebbe dovuto prenotare in anticipo, quando finalmente il furgoncino arancione accosta e lo fa salire.
La strada tra Betlemme e Ramallah non è lunga, passando per Gerusalemme.

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Tuba/At-Tuwani – School Patrol

Come tutte le mattine gli studenti camminano per andare a scuola.
Tra gli schiamazzi Said cerca di allungare lo sguardo per assicurarsi che ci sia l’esercito israeliano, che ha il dovere di scortarli lungo la strada tra due insediamenti israeliani.
Said non vede il lampeggiante della jeep. Significa che sono in ritardo.
Passano 30 minuti, ma dei militari nessuna traccia.
I ragazzi continuano ad aspettare nel punto di ritrovo.
Sono pericolosamente vicini all’avamposto israeliano, se i coloni volessero attaccarli non ci metterebbero niente.
A questo punto ci sono tre possibilità: tornare a casa, ma loro vogliono andare a scuola; percorrere un tragitto che si snoda fra le colline cercando di tenersi il più lontano possibile dall’avamposto, ma arriverebbero a scuola ancora più in ritardo; percorrere la strada senza scorta, che pare la scelta migliore.

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Vandalismo dei coloni ai danni di proprietà palestinesi

Jaber è accanto al suo trattore in cima alla collina.
È da poco sorto il sole ma a differenza delle altre mattine Jaber non sta apprezzando l’alba.
Davanti a lui si estende il suo uliveto, appartenuto alla sua famiglia da generazioni, una terra che fino a ieri era viva, piena di vita e resistenza e che adesso è solo un campo devastato: la gran parte degli alberi sono rotti, i tronchi centenari tagliati, i rami spezzati.
Il dolore che prova è quasi fisico tanto da percepire il cuore spezzato.
Quest’anno non potrà raccogliere nulla, non potrà riunire la sua famiglia durante la raccolta, non potrà portare le olive al frantoio, non potrà festeggiare la fine della raccolta e gustare insieme ai suoi cari il suo olio, non lo potrà vendere.

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Demolizioni - ordine militare 1797

Ra-ta-ta-ta-tà.
Rumore assordante di trivella.
Il primo muro viene giù.
Il macchinario si scaglia contro la parete successiva.
Ra-ta-ta-ta-tà.
Boom.
Il cemento si abbatte a terrà con un tonfo.
Ora un letto è chiaramente visibile tra le macerie.
Ci sono dei panni che sventolano sul terrazzino ancora in piedi.
Un ammasso di vestiti e utensili a qualche metro dalla casa.
Soldati.
Soldati ovunque che fanno da cordone, allontanando i proprietari.
Volti impassibili di giovani con il fucile.

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Beit Ijza – Vivere in gabbia

Suleiman è in silenzio, mentre beve il suo caffè, seduto sui gradini davanti alla porta di casa.
Osserva le telecamere che monitorano ogni centimetro della sua casa.
Sono puntate sul piccolo corridoio che collega la casa al cancello di metallo, e sulla recinzione, sul muro alto sei metri che delimita i pochi dunum che gli sono stati lasciati.
Osserva le telecamere, che puntano su quei due metri che distanziano la recinzione dalle mura dell’insediamento: quei due metri, che Israele voleva che fossero solo 60 centimetri, e che Suleiman ha conquistato, giorno dopo giorno.
Osserva le case dell’insediamento.
Sono cresciute ancora, sono sempre più grandi, o forse lui le vede così: opprimenti, soffocanti, tutte attorno a quella che lui continua a chiamare casa, ma che sembra una prigione.

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Ein Hajla – Storie di resistenza

Mahmoud si siede sulla sdraio.
Hafez prepara il baba ganush e la cena con i pochi strumenti che hanno portato con sé.
Con il sopraggiungere della sera, si alza un po’ di brezza.
Mahmoud guarda il fuoco, immerso nei suoi pensieri.
Quel luogo disabitato è lo scrigno di una storia di resistenza.
“I fumogeni, la violenza, i soldati schierati, le urla, gli sfratti. Ti ricordi Hafez?
Ma che giorni sono stati.
Lo sentivi nell’aria che la gente era stanca, si era pronti per qualcosa di grosso.
In quanti eravamo, e che sogni avevamo.
Intere famiglie si erano stabilite qui, da tutta la Cisgiordania.
Tutte qui.

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Burin – Violenza dei coloni

Siamo fuori dalla zona che è appena stata dichiarata area militare chiusa, fissiamo i militari dall’altro lato della strada e ci assicuriamo che Abu Salem possa continuare a raccogliere le olive nel suo uliveto.
Improvvisamente un rumore forte alle nostre spalle. Mi giro di scatto.
Non faccio in tempo a realizzare che quello che ho appena sentito è uno sparo che inizio a correre seguendo gli altri.
Ci fiondiamo nella macchina che inizia a sfrecciare sulle vie del villaggio di Burin e non appena rallenta saltiamo letteralmente fuori dall’abitacolo con ancora il motore acceso.
Entriamo nell’uliveto e corriamo verso le grida che sentiamo in cima alla collina.
Non so dove sono, non so verso cosa sto correndo, non so cosa aspettarmi ma continuo a correre.

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Bruqin - Coordinamento e violenza dei coloni

È il primo giorno della raccolta delle olive.
Farah ha aspettato questo giorno per un anno.
Per un anno non ha fatto altro che cercare di ricordare i suoi ulivi, l’odore della terra, il sole che all’alba filtra tra i rami dei suoi alberi secolari e possenti.
Per un anno ha sperato che il suo campo non venisse vandalizzato dai coloni di Bruchin, la colonia appena fuori dalla sua terra.
Sono tutti all’opera: suo fratello, i suoi quattro figli e suo marito.
Ogni tanto Farah lancia un occhio ai militari lì vicino.
Sono quattro, nelle loro divise verde cachi e con i loro M-16 ben stretti a sé.
Sono tutti vicino alla jeep e non mostrano il minimo interesse per ciò che li circonda.
Farah non è tranquilla.
I militari sono lì per proteggerli dai coloni in caso di bisogno.
Lei lo sa.

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Al Hadidiya – Sfruttamento delle risorse idriche nella valle del Giordano

Un furgone in movimento.
Taniche che sbattono ad ogni buca.
Il copricapo tradizionale sulla testa.
Abu Saqr si avvia per fare rifornimento d’acqua per la sua famiglia e il bestiame.
Primo checkpoint.
Si ferma.
Controllo dei documenti.
Riparte.
Secondo, terzo checkpoint.
Di nuovo.
Soldati che si avvicinano, ispezionano il veicolo, controllano i barili uno ad uno, scrutano il volto dell’uomo.

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