Nel nebuloso mondo delle vendette di sangue albanesi

dal The Telegraph (Peter Foster) - Europe Editor a Scutari, Albania // 16 Aprile 2016

Si tratta delle cosiddette “vendette di sangue” dell'Albania – oscure trame di vendetta che si dipanano dalle incontrollate montagne del nord del paese e rievocano un codice di giustizia medioevale che mette in conflitto un clan contro l'altro in cicli di omicidi senza fine.
Sono storie che non dovrebbero accadere nella moderna Albania – dotata di rete 4G, membership Nato e status di candidato all'Adesione all'Unione Europea – ma che nel decadente quartiere degli uffici della capitale Tirana sono storie che si raccontano di oggi, non del tempo che fu.

“Ci sono già stati 35 omicidi per vendetta nel 2016”, dice Gjin Marku, un ex ufficiale dei servizi segreti che ora lavora come mediatore di conflitti delle cosiddette “vendette di sangue”.
Gjin Marku annota gli omicidi recenti che lui ritiene essere il risultato di famiglie in faida – non atti di violenza casuale in un paese inondato di pistole, ma il risultato della continua adesione ad un antico codice di giustizia albanese conosciuto come “kanun”.
Un contadino è stato ucciso dopo aver tagliato un albero di un suo vicino, un innamorato ha ucciso i due fratelli della sua fidanzata dopo aver ricevuto un rifiuto al permesso di sposarla e un lavoratore emigrato è stato sparato al suo ritorno al villaggio, riesumando una faida vecchia di decenni.
Sono queste le regole del “kanun”, un codice tribale di 1,262 articoli redatto da un nobile albanese del XV secolo,  Lekë Dukagjini, che prevedeva che “il sangue versato deve essere vendicato con lo spargimento di altro sangue”
Ma mentre le storie del Kanun sono parte del DNA culturale e storico dell'Albania, esse sono anche fonti di preoccupazione crescente per le commissioni britanniche di esame delle richieste d'asilo. Dal 2012, decine di migliaia di albanesi sono emigrati in Europa, molti dei quali richiedendo asilo per paura di perdere la vita a causa delle “vendette di sangue”.
Gli ufficiali britannici considerano tali richieste quasi sempre false – o almeno non ciò che appaio essere. Aspettare un appuntamento fuori dall'ufficio di Marku fornisce un esempio -  Bajram Cani, pensionato, racconta di come sua figlia, Drita, abbia ucciso suo marito ed entrambi i suoi suoceri dopo che questi hanno provato a obbligarla a commettere “atti impuri”. Più tardi si è suicidata. Era il 1996.
Negli ultimi 20 anni, il signor Cani, 77 anni, è stato tecnicamente in “vendetta di sangue”, sebbene ammetta candidamente che nell'immediato nessuno abbia minacciato di ucciderlo e che la famiglia del suo ex genero – i cui membri, per la maggior parte, sono ormai morti – vivono ad appena poche porte di distanza dalla sua casa attuale.
“Non temo per la mia vita, ma spero che Gjin Marku possa fornirmi un documento che confermi la mia situazione di faida prima di partire per la Germania”, dice. “Il documento mi aiuterà quando arriverò in Germania. Ho bisogno di andare là per la mia salute: qui è troppo caldo”.
Tale “certificato” di vendetta di sangue ha invaso il sistema di asilo europeo, dicono gli ufficiali, al punto tale da spingere il Ministero per gli Affari Interni britannico a mettere in guardia le commissioni d'esame sul fatto che tali lettere di attestazione “in generale, non dovrebbero essere considerate prove affidabili dell'esistenza di una faida”.
Nicholas Cannon, l'ambasciatore britannico in Albania, è andato anche oltre, durante un discorso del 2013 nel quale ha accusato i locali ufficiali di governo e le ONG di creare “un business sui cosiddetti certificati di vendetta di sangue”, che alimentano il datato stereotipo balcanico dell'Albania come arretrata e pericolosa.
Non c'è alcuna ragione per nessun “albanese di richiedere asilo in alcun paese dell'UE - né per ragioni politiche né di sicurezza”, ha detto a The Telegraph Saimir Tahiri, ministro degli interni della coalizione socialista al potere in Albania.
Nonostante il giro di vite del governo, Marku – che è stato lui stesso indagato nel 2014 dalla polizia per aver venduto certificati falsi, prima che tutte le accuse cadessero per aver argomentato con successo che le accuse fossero motivate politicamente – è ancora attivo e spavaldo nel campo.
Interrogato a proposito delle critiche di Cannon, dice: “Non sa di cosa sta parlando – infatti, come ambasciatore, non vede neanche gli occhiali sul suo naso”.
Marku è ugualmente aspro anche con il ministro degli interni: “Il ministro ripete un copione; dice queste cose perchè vuole che l'ambasciatore britannico gli creda e perchè è ciò che l'Europa vuole sentire – così che possa far diventare l'Albania membro dell'UE”.
La difficoltà per le commissioni britanniche di esame delle richieste d'asilo è che in Albania fatti e finzione sono spesso molto difficili da distinguere.
Le indicazioni del ministero degli Affari Interni mettono in guardia da molti articoli di giornale sulle faide, che avrebbero poco se non alcun peso nel validare l'esistenza di una faida. Ma come molte storie convincenti, il fenomeno delle vendette di sangue prosegue perchè ha almeno un nocciolo di verità. Il codice, che in realtà era designato per stabilizzare la società piuttosto che frammentarla, fu crudelmente soppresso durante la dittatura comunista di Enver Hoxha.
Ma dopo la liberazione è riemerso e tutt'oggi può obbligare intere famiglie a nascondersi per evitare minacce di omicidi di rappresaglia. Per provare il suo punto di vista, Marku ci invita a visitare la famiglia Mehilli a casa loro, nella periferia rurale di Scutari, 60 miglia a nord di Tirana.
Al suo interno, Gjon Mehilli, 34 anni, racconta la sua storia – di come 5 membri di una famiglia locale lo abbiano aggredito per una disputa sulla terra nel 1992, accoltellandolo allo stomaco. E' stato soccorso da suo fratello maggiore, Pal, che ha bastonato a morte uno degli uomini con un falcetto, iniziando una vendetta di sangue che persiste da allora.
“Io so che sono un morto vivente”, dice Mehilli, indicando suo figlio Klevis, di 16 anni, e sua figlia Govana, di 8. “Ho chiesto loro di liberare i miei figli dalla faida, ma hanno rifiutato e i bambini non possono andare a scuola. Quello che vogliono è essere ripagati con il sangue”.
Il signor Mehilli e sua moglie, Valentina, dicono che impazziscono a stare chiusi nella loro casa, i cui bianchi muri sono adornati con grandi crocifissi e immagini della Vergine Maria e dell'Ultima Cena.
Non osano mai uscire a piantare verdure nell'orto per paura che una telefonata possa essere fatta per far colpire il signor Mehilli da un cecchino con una delle circa 200,000 pistole depredate dai depositi governativi nel 1997, quando l'Albania, per breve tempo, soccombette all'anarchia.
“Il nostro cane 'rosso' è stato sparato sulla porta di casa poche settimane fa”, dice il signor Mehilli, “e l'altra famiglia ci minaccia barbaramente, telefonano e promettono di bruciare la casa con dentro i miei figli”.
Tutti i tentativi di mediazione con l'altra famiglia sono falliti, spiega Marku. Quando i suoi “missionari” locali vanno dall'altra famiglia “i suoi membri aizzano i cani contro di loro”, aggiunge, “e nessuno osa avvicinarsi”.
Il signor Mehilli dice che la polizia locale non lo aiuterà - “loro dicono: 'è l'Albania, sei in vendetta di sangue, conosci le regole'” - e che non può muoversi perchè la famiglia avversaria è troppo ricca e ben ammanigliata - “mi troverebbero in un giorno e mi ucciderebbero”.
Incapace di vivere nascondendosi in Albania e di chiedere asilo all'estero, il signor Mehilli dice che è bloccato in un limbo con una sola possibile fine: la sua morte.
E' una storia potente, capace di rendere credibile la versione di Marku e di altre ONG secondo cui il governo sta sottovalutando una tragedia nazionale al fine di favorire nazioni europee come la Gran Bretagna, che lo scorso anno ha concesso 366 status di asilo su 1,982 domande.
Comunque, qualunque sia la verità di alcuni casi individuali, è chiaro che c'è più di una sorta di licenza poetica nelle storie di “vendetta di sangue” raccontate dai richiedenti asilo provenienti dall'Albania.
Mentre guidiamo, chiediamo a Murku del caso del signor Cani, il vecchio lavoratore che vuole trasferirsi in Germania con sua moglie. Marku – inconsapevole che il signor Cani avesse già spiegato che non ha paura per la sua vita – racconta invece una storia diversa. “Certamente ha paura per la sua vita. Sono sulle sue tracce per ucciderlo”, dice prima di aggiungere che scriverà una lettera per supportare il suo caso.
E così l'antica idea di 'kanun' è perpetuata al giorno d'oggi – forse più viva nei durevoli miti popolari, riguardanti il lato oscuro dell'Albania, che nella stessa realtà.