Quando riceviamo la video-chiamata di J., una nostra amica congolese che vive nel campo di Ritsona, non capiamo subito cosa ci stia dicendo, ma notiamo che si trova fuori dal campo con molte altre persone, sentiamo una gran confusione in sottofondo e percepiamo la preoccupazione nella sua voce.
Non ci sono dubbi: sta succedendo qualcosa al campo e noi dobbiamo esserci; non aspettiamo oltre e ci mettiamo subito in macchina.
A pochi chilometri dal campo veniamo fermati dalla polizia perché la strada è bloccata, lasciamo la macchina e proseguiamo a piedi: i nostri amici ci aspettano e noi vogliamo essere lì con loro.
Una volta arrivati vediamo molte persone della comunità congolese, soprattutto donne, fuori dal campo; alcune urlano, altre piangono, altre ancora raccolgono pezzi di gomma per accendere un fuoco: “è morto un ragazzo, ha quattro figli”, ci dicono, “è solo negligenza, questo è puro razzismo”.
Ci dicono che avevano chiamato l’ambulanza ieri sera alle 17, ma non si è presentata prima di questa mattina, quando ormai era troppo tardi.
O. è morto nell’attesa.
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Colombia - Dicembre 2022
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Una cicatrice indelebile

Centinaia di anziani, madri e bambini in fila al freddo ad aspettare il proprio turno per ricevere un sacchetto con all’interno alimenti basici per sfamarsi per qualche giorno.
È da mesi ormai che inizia così la giornata di migliaia di persone in queste zone del Paese.
Oggi sto aiutando la comunità a fare i pacchetti e non ci si ferma un secondo per stare al passo con tutte le persone che sono fuori in attesa.
Dopo svariate ore, le persone iniziano a diminuire e noi riprendiamo un po’ di fiato; finalmente riesco a conversare un po’ con i vari collaboratori, in particolare con P., con cui rimango fino alla fine della giornata per organizzare e sistemare i diversi pacchi che serviranno per l’indomani.
Dopo varie domande personali per conoscerci un po’ meglio, gli pongo alcuni quesiti sul conflitto, ma a differenza della persona che ho incontrato settimane fa, lui mi da risposte più incalzanti e sentite.
P. è un ragazzo di 30 anni, è sposato e ha avuto da poco un bambino.
“Cosa pensi di tutta questa situazione?”.
“Allo scoppio della guerra mio figlio aveva circa 1 mese, secondo te come ci si può sentire a scappare in un rifugio buio e umido con la moglie e in braccio un neonato?”.
È arrabbiato ma anche afflitto, si percepisce dalle sue espressioni corporali e facciali.
“Prima lavoravo al consolato polacco qui in città, avevo un lavoro che mi piaceva ed io e la mia compagna eravamo felici essendo appena arrivato il piccolo. Da un giorno all’altro, a causa di un’unica persona megalomane e fuori di testa, ci siamo ritrovati senza lavoro e con R. da crescere in questa situazione. Mi sembra assurdo vivere tutto questo nel 2022”.
E’ veramente frustrato e stanco per tutti questi mesi passati dall’inizio della guerra.
Una quotidianità apparentemente ordinaria

Sono arrivata da un mese ormai eppure mi sembra di aver appena messo piede in questo posto.
Ho appena incominciato a capire chi è chi e ancora, spesso, mi capita di incontrare qualcuno e di domandarmi se mi sia già stato presentato, perché non me lo ricordo proprio.
Qui le giornate iniziano presto, seguendo i ritmi dettati dalla “naturaleza”; mi sveglia il sole che penetra dalle fessure della nostra casa di legno, il chicchirichì del gallo (che non fa molto testo, perché canta ad ogni ora del giorno e della notte) e la musica allegra che qualcuno mette alla radio preparandosi per la giornata.
E mentre fuori casa la Comunità prende vita, se non ci sono accompagnamenti o incombenze particolari, io me ne resto nel letto a dormicchiare godendomi tutti questi suoni.
Quando verso le 7.30 mi alzo, la giornata dei miei vicini è già nel pieno della vita.
I bimbi sono già a scuola da un bel po’ e poi c’è chi è partito per andare a lavorare in una finca vicina, anche a qualche ora di cammino o di mula e chi in città a fare commissioni.
Solo papere, galline, cani, gatti e maiali che gironzolano nell’erba tra le case.
Il pomeriggio, mi siedo fuori casa dove c’è un tavolo con sgabelloni di legno tutti colorati e qualcuno passa sempre a fare quattro chiacchiere o, con il mio spagnolo sgangheratissimo, ci prova.
Mi chiedono se mi piaccia stare qui, o se nell’accompagnamento di qualche giorno fa io sia cascata dalla mula e allora si ride assieme mentre provo a raccontare che no, miracolosamente non sono caduta, ma camminando laddove con la mula era troppo pericoloso, il mio stivale è rimasto svariate volte incastrato nel fango e allora M., che non mi perdeva di vista e mi ha aspettata pazientemente per tutta la strada, me lo ha tirato fuori.