In Libano il tempo scorre diversamente che altrove.
Da ieri mi sembrano passati già almeno tre giorni, e allo stesso tempo mi sembra di essere qui da una settimana invece che un mese. È come se qui non ci fosse mai abbastanza tempo.
Tempo per stare con le persone, per cucinarsi la cena, per ascoltare, per imparare l’arabo, per metabolizzare tutti i sentimenti che si vivono in un giorno.
Forse la verità è che il tempo qui non si misura ad ore, minuti e secondi, ma segue le emozioni.
Perché non si tratta neanche di tenere il conto di quante visite si sono fatte, o di quante persone si sono ascoltate.
Ci si allontana dal bisogno di produttività a cui la nostra società ci ha abituat*.
L’obiettivo non è il fare, diventa lo stare.
Fermarsi, lasciare spazio, anzi creare spazio per l’ascolto; rallentare e prendersi tempo — che qui si valuta in emozioni — per guardarsi negli occhi.

12 ore di pullman, un treno e autobus.
Un viaggio impegnativo ma ne vale la pena perché mi porta in Francia, per un incontro che avrei creduto impossibile qualche anno fa.
È arrivata una famiglia siriana dal Libano con i Corridoi Umanitari.
Sembra un evento da poco, detto così.
Ne arrivato tante di famiglie, per alcuni persino troppe.
Eppure che è un evento lo sentiamo bene io e Caterina, l'altra volontaria che è qui con me (a dire il vero io sono con lei, visto che non ricordo più come si parla né arabo né francese, ma vabbè).
Lo vediamo negli occhi pieni di lacrime che ci accolgono.
Nei sorrisi che ci abbracciano tutte.
Nei volontari che ci scrivono e chiamano per vedere/sapere/salutare.
E, sì, anche nei corpi finalmente fieramente pasciuti!
C'è futuro ora.
Per i figli che possono fare i bambini lontani da fabbriche di caramelle o raccolte di patate.
C'è un orizzonte in cui le fatiche sono "solo" quelle di farsi conoscere, accogliere, accettare e imparare una lingua che ha dei suoni sconosciuti.
Non ci sono raid notturni, non c'è la corsa forsennata a racimolare soldi ogni mese, non ci sono i ratti nella tenda e acqua che entra dove si dorme, quando piove.

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Quando andiamo a casa di S. e la sua famiglia, ormai l'unico paesaggio che abbiamo davanti è una landa grigia. Piove ininterrottamente da tre giorni.
Siamo in visita da questa famiglia per avere aggiornamenti sulle condizioni di salute del padre che ha un problema agli occhi e della madre che è in cura per un tumore al seno.
A breve, infatti, verrà in Libano il dottore italiano e vorremmo avere tutto pronto affinché li veda.
Hanno 5 figli, ma la loro casa è sempre piena di persone. La classica famiglia allargata, più nuclei che vivono sullo stesso pianerottolo, ma che condividono molto di più.
Oggi, però, la casa è stranamente silenziosa, quasi vuota. Appena arriviamo ci fanno accomodare, ci servono il mate e lo accompagnano con le arachidi. È la seconda volta che li vengo a trovare e sanno già quanto mi piaccia fumare il narghilè.
È lì, già pronto, per il nostro arrivo.
Dopo i primi convenevoli e gli aggiornamenti, la conversazione ha preso tutt'altra piega.
Infatti, senza domande specifiche, ma come se fosse stato il momento a chiamare quelle memorie, S. ha cominciato a raccontare di quando era in Siria, di come era stato preso perché disertore e messo in prigione.

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L’arrivo al campo è travolgente; nel giro di pochi minuti vengo raggiunta nella tenda da tante ragazzine che mi si stringono attorno, mi chiedono il nome impasticciando frasi in italiano e inglese, mi regalano bigliettini con cuoricini e maracas fatte da loro.
Sono letteralmente travolta e penso che non poteva esserci modo migliore per rompere il ghiaccio e tuffarmi in un’esperienza che, non immaginavo a tal punto… mi avrebbe lasciato dopo 3 settimane, con tanta voglia di tornare.
La condivisione diretta è una strada speciale per stare nel mondo, la sento mia.
Si tratta di STARE ACCANTO alla gente, senza pretese, con umiltà… semplicemente stare accanto.
In questa semplicità, che a volte mi ha fatto sentire inutile perché venivo solo accolta nelle loro tende, colmata dalle loro attenzioni, rapita dall’energia dei loro bambini, ho potuto raccogliere ciò che spontaneamente accade nell’incontro tra persone, in una specie di magia che sorprende in quanto capace di superare ogni barriera… linguistica, sociale, culturale.

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Non si può descrivere la nonviolenza con una definizione unica, così mi ha insegnato la presenza di Operazione Colomba in uno dei tanti campi profughi improvvisati del Libano. Se dovessi scegliere qualche immagine per rappresentarla, ve la racconterei attraverso la scuola costruita e gestita da una famiglia siriana, decisa nel creare più opportunità e spazi per le nuove generazioni. Potrei farvi conoscere la rete di attivisti, ancora coinvolti nelle loro attività nonostante esporsi politicamente in Libano come rifugiato sia molto pericoloso. C'è una forza immensa in queste persone nell'immaginare un futuro alternativo. Potrei anche scegliere un'immagine quotidiana, come la gentile accoglienza che ci viene offerta durante qualsiasi visita ai nostri vicini. Spesso questa prende la forma di tè molto zuccherato, dell'energia infinita dei bambini e dei racconti di storie più o meno lontane.
La nonviolenza è anche tutto questo. È resistenza attiva e continua.
Spesso definiamo le persone con cui condividiamo la nostra presenza in Libano come i siriani che non hanno preso in mano le armi, lasciando il paese per "non uccidere e non farsi uccidere". Quello che finisce sotto l'ombra della guerra, è la decisione giornaliera di non lasciarsi abbandonare alle provocazioni esterne, alle difficoltà sistemiche della vita in un campo profughi, all'apparente mancanza di orizzonti più luminosi. È riuscire a non “imbruttirsi”, a non lasciarsi abbandonare alla rabbia senza saperla gestire.
Così, la nostra presenza internazionale diventa uno spazio solidale di dialogo, scambio e sostegno affinché questa forma di resistenza non solo possa continuare ma si possa espandere attraverso le persone, toccando tutti gli individui che sognano un ritorno pacifico in Siria.

T.