La luce del sole esplode tra gli alberi del bosco, si intrufola nei petali di “copihue” che nascono lentamente tra le sfumature di verde e infiammano i prati del campo di un rosso accesso. I raggi del giorno raggiungono il letto del fiume, in costante movimento e trasformazione, l’acqua brilla nel costante gioco di scivolare tra le lisce superfici delle pietre dormienti che costruiscono le autostrade dei torrenti. Ogni elemento si fonde l’uno con l’altro, seguendo accordi ancestrali di una convivenza che perdura nel tempo e accoglie gli spiriti e le energie della natura. Le strisce di bagliore, che scaldano e inondano di vita, entrano timidamente tra i rami intrecciati che costruiscono il tetto della ruka e rendono più visibili le traiettorie del fumo quasi nauseante, ricoprendo questo edificio tradizionale mapuche. Il fuoco al centro continua ad ardere imperterrito, dando l’impressione di bruciare da tempi lontani senza aver mai perso l’ossigeno che alimenta la sua vita. Il risultato di questo mistero è una continua cupola di fumo, si sparge in ogni angolo e impregna i tronchi che sorreggono la struttura tra le paglie e i rami, custodi dei confini di questo tempio antico. Il corpo lentamente si abitua a questa condizione, a fatica, mentre gli occhi piangono lacrime salate nel tentativo di lubrificarsi e resistere a questa foschia fumosa.

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La lotta per preservare l’identità mapuche nelle carceri cilene

L’uomo in divisa verde e nera è un agente della Gendarmeria de Chile. Apre la porta di ferro del carcere di Temuco con un mazzo di carte di identità in mano. Inizia a scandire i nomi di familiari e amici giunti a incontrare i detenuti. Sono le 13:40, l’orario delle visite è scoccato da poco e questo è solo il primo di una lunga serie di appelli. Ad avere la precedenza saranno quelli che hanno consegnato i documenti la mattina, prima delle 11:00. Tra questi fortunati ci dovremmo essere anche io e Jacopo, un altro volontario che è con me, ma i nostri passaporti stranieri sono stati messi in coda all’innumerevole serie di carte di identità nazionali. Dovremo aspettare le prossime due chiamate. Siamo qui per incontrare dei prigionieri di origine mapuche, lo scopo è raccogliere delle testimonianze e informarci sulla situazione carceraria, ma il tramite per farlo come osservatori dei diritti umani è troppo lungo, quindi i familiari ci hanno ceduto un po’ del loro tempo per poter fare la visita.

Mi guardo attorno: distinti sprazzi di umanità si stringono sul marciapiede, tra le mura del carcere e la strada. Una tettoia verde in metallo protegge dalla pioggia in inverno e dal sole in estate, ma non riesce ad ospitare tutti. Hanno le facce stanche e avvilite, i loro occhi riflettono i segni dell’attesa. Spesso le loro braccia conserte si sciolgono per rivolgere una domanda agli agenti, una lamentela, un insulto in cileno.

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Discriminazione e Scioperi della Fame tra i Mapuche

La lotta dei Mapuche per la terra e l'autodeterminazione ha radici profonde.
Nel corso della storia, il loro territorio ancestrale è stato progressivamente usurpato per far spazio all'espansione agricola e industriale.
Oggi, molte delle terre che un tempo appartenevano a loro sono nelle mani di grandi aziende forestali e di energia, che spesso operano senza riguardo per i Diritti delle comunità indigene.
Le violazioni dei Diritti Umani contro i Mapuche non sono solo violazioni di legge internazionale, ma rappresentano anche un affronto alla dignità e alla storia di un popolo che ha dato un contributo significativo alla cultura cilena.
Molti affrontano discriminazione e persecuzione da parte delle autorità.
La repressione politica è stata una costante nella storia recente del Cile, e i Mapuche spesso si trovano nel mirino del governo a causa della loro resistenza e delle richieste di autonomia e giustizia sociale; molti attivisti Mapuche sono stati incarcerati ingiustamente.

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Esco e chiudo la porta.
Cammino.
Cammino e mi perdo tra numerosi pensieri.
Ammiro attentamente la natura che mi circonda, ascoltando le pecore delle vicine che stanno per entrare nel nostro giardino per mangiare l’erba e, così, aiutarci perché non cresca più del necessario.
Continuo a camminare e per strada incrocio una famiglia che sta andando giù in città.
Vado avanti, osservo la sinuosità, il movimento danzato degli alberi e la maestosità di quei vulcani, al contrario, o apparentemente, immobili.
Mi concentro sulla strada e proseguo scalciando qua e là qualche sassolino che alza del pulviscolo.
Un cane ha deciso di accompagnarmi facendomi strada.
Cammino.
Mi guardo intorno, e cominciano ad affiorare alla mente varie domande.
Cosa faccio di nuovo qui, tra queste strade sterrate?
Perché sono tornata nel Wallmapu, nel territorio Mapuche?
Proseguo sul mio percorso, e sento un piccolo nodo allo stomaco farsi più grande.
Faccio respiri profondi, e invidio il mio fedele compagno che sembra essere spensierato e godersi la nostra passeggiata.
Arrivo alla mia prima tappa.
Il suo sorriso e la forte stretta del suo abbraccio mi fanno stare già meglio.

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La strada da Temuco a Concepción è un fiume d’asfalto che costeggia boschi di pino e eucalipto.
Un tratto di panamericana che si snoda attraverso piantagioni di alberi destinati alla produzione di legno e cellulosa, perlopiù monocolture gestite da grandi imprese forestali.
Molto spesso, il susseguirsi continuo e monotono degli alberi viene bruscamente interrotto da qualche ettaro di terra brulla, un deserto marrone completamente spoglio.
Sullo sfondo si possono notare le cataste di tronchi pronti per essere trasportati.
L’impressione è quella di osservare un campo su cui si è appena svolta una battaglia: il terreno appare smosso da solchi e buche frastagliate e tutto attorno carcasse di rami giacciono a terra senza vita.
Chiudendo gli occhi si può immaginare il rumore inteso dei macchinari, le urla dei lavoratori e il legno che cade al suolo, scuotendo la terra fin dalle fondamenta.
Tanto rumore e poi il nulla, chilometri di terreno svuotato della vita che lo ricopriva e tetro silenzio di morte.
Pochi metri più in là, appare un altro campo, dove timidi si sporgono i nuovi alberi appena piantati.
Avranno il tempo di crescere qualche metro prima di essere sacrificati anche loro, vittime inermi di una guerra destinata a non finire.
Questo è il lascito dell’industria forestale sulla morfologia del territorio, un’eredità fatta di estrattivismo, silenzio e macerie.

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