Un anno fa, un peschereccio sovraccarico è colato a picco nella fossa di Calipso, il punto più profondo del Mediterraneo.

Esattamente nella notte tra il 13 e il 14 giugno 2023, l’imbarcazione Adriana partita da Tobruk, in Libia, e diretta in Italia, è naufragata al largo di Pylos, a sud del Peloponneso, Grecia, con a bordo circa 750 persone.
Solo 104 sono stati i superstiti, di cui uomini siriani, egiziani, palestinesi e pakistani e 81 i corpi recuperati.
Nel caos informativo che ne è seguito, i familiari delle vittime ancora attendono risposte esaustive e giustizia.
I 104 sopravvissuti sono stati recuperati in mare e trasferiti al campo di Malakasa per l’identificazione e la registrazione della domanda d’asilo.
Tra questi, 9 egiziani sono stati ingiustamente incolpati di traffico di essere umani e detenuti per undici mesi in carcere.
Il 21 maggio 2024, il tribunale di Kalamata ha finalmente assolto i 9 superstiti, riconoscendo l’avvenimento del naufragio in acque internazionali e facendo decadere tutte le accuse dichiarandosi incompetente sul caso.
Le violazioni perpetrate in questo anno sono continuate anche dopo la decisione della Corte d’Appello, quando i 9 sopravvissuti sono stati trasferiti alla stazione di polizia di Nafplio e illegalmente trattenuti ancora una volta.

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Il “nuovo” pacchetto legislativo su migrazione e asilo dell’Unione Europea è stato approvato dal parlamento europeo il 10 aprile del 2024. In breve si tratta di: fare un esame più rapido delle richieste di asilo, anche alle frontiere dell'UE, e rimpatri più efficaci; migliorare la procedura di identificazione all'arrivo; controlli obbligatori di sicurezza, vulnerabilità e salute per le persone che entrano irregolarmente nell'UE; gli Stati membri possono scegliere se assumersi la responsabilità dei richiedenti asilo, versare contributi finanziari o fornire supporto operativo; migliore risposta durante le situazioni di crisi; e, infine, un nuovo schema volontario per il reinsediamento dei rifugiati provenienti da Paesi terzi.

Ma questo patto non è “nuovo”, queste leggi non sono “nuove”, anzi sono già applicate in vari paesi, come la Grecia. Gli effetti dell’accelerazione delle procedure di asilo alle frontiere, dei centri di detenzione per la registrazione e identificazione, delle deportazioni basate sul concetto fluido di “terzo paese sicuro”, li vediamo e li ascoltiamo quotidianamente dalle persone che incontriamo fuori dai campi. La mancanza di chiarezza e assistenza legale spesso blocca le persone in un limbo burocratico per diversi anni. L’errore di battitura in un documento, un’intervista fatta senza il giusto interprete e senza nessuna preparazione, la mancanza di risorse per presentarsi agli appuntamenti legali, sono le trappole perfette conseguenze di leggi che non rispecchiano la realtà sul campo. Per un siriano la Turchia è considerata paese sicuro eppure noi incontriamo siriani che dalla Turchia sono stati deportati in Siria, dopo essere stati derubati di tutto, altri che in Turchia vivono atti discriminatori quotidianamente e vengono arrestati arbitrariamente.

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Sono sul volo AZ721 Atene-Roma, ci vorranno due ore prima di arrivare nella capitale italiana, ne approfitto per cercare di guardarmi dentro.
Ripercorro i luoghi, gli incontri fatti con le persone fuori dal campo profughi di Ritsona, gli occhi nei quali a volte ho fatto fatica a sostenere lo sguardo senza sentire dentro di me un grande e profondo senso di impotenza e ingiustizia davanti a chi dice: non ho nulla da dare da mangiare ai miei figli, se fossi solo e non avessi famiglia, tornerei in Iraq, almeno morirei con più dignità piuttosto che restare qui in questo campo e vivere come fossimo in prigione, dove la mia famiglia non ha nessun Diritto, neppure al cibo.
Ripenso alle mani strette una nell’altra per scambiarci le parole più vere di sempre; noi purtroppo non possiamo cambiare la vostra situazione; fisso i loro occhi e poi abbasso un’altra volta la testa, sento allora che la stretta diventa più forte quando questo papà mi dice: non voglio nulla, vi chiedo solo di essere amici. Ricambio la stretta, con forza, alzo la testa e suggello una promessa, fin quando Operazione Colomba è qui, non vi lasceremo soli.

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Sabato 9 dicembre - È mezzogiorno di un sabato tranquillo quando ci chiama J, una ragazza di 21 anni congolese che vive all’interno del campo di Ritsona, e gridando ci dice che è scoppiato un incendio all’interno del campo. Quando arriviamo sul posto, vediamo il camion dei pompieri entrare dal cancello principale. Parliamo con il personale della sicurezza del campo che, con ostilità, ci dice che ormai le fiamme sono state domate, nessuno è ferito e stanno tutti bene.
J esce dal campo, a noi interdetto, e ci racconta che sono andati a fuoco sei container e molte famiglie sono rimaste senza niente, alcuni hanno perso addirittura i documenti. Dopo averle offerto una tazza di tè caldo le abbiamo chiesto se per lei fosse possibile chiedere alle persone che hanno perso tutto di uscire dal campo. Con forza e lucidità J rientra nel campo e dopo 20 minuti esce accompagnata da una donna con un bambino molto piccolo in braccio, un’altra donna sola e tre uomini. Sono tutti della comunità africana ma ci riferiscono che vittime dell’incendio sono anche delle famiglie siriane. J ci dice che ha provato a parlarci ma la barriera linguistica ha reso l’incontro difficile.
Ci raccontano che i container ormai in cenere sono quelli vecchi, che da tempo non vengono controllati, e in cui vivono più persone di quelle previste. Questo tipo di incidenti, spesso legati a problemi di elettricità e dei sistemi di riscaldamento interni ai container, avvengono con frequenza nei campi profughi. Nonostante ciò, sembra non esistere un sistema di prevenzione e gestione di queste emergenze. Il direttore del campo, che si è presentato sul luogo immediatamente, ha comunicato che non avrebbe fornito una soluzione logistica fino al lunedì alle famiglie colpite, le quali avrebbero dovuto trovare rifugio per le notti successive presso altri container già molto affollati. La preoccupazione di dover passare la notte fuori al freddo nella speranza di cercare solidarietà da altri, si è così aggiunta alla già forte sensazione di perdita e disperazione.

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Siamo arrivati da poche settimane in Grecia e abbiamo già ricevuto notizia di tre respingimenti nelle acque dell’Egeo, tra Grecia e Turchia. Le poche informazioni che abbiamo, grazie al lavoro dell’organizzazione Aegean Boat Report, ci dicono di un primo respingimento due settimane fa di 41 persone, tra cui più di 20 bambini al largo dell’isola Chios, della morte di una donna durante i soccorsi di un barcone, e infine di 23 persone di origine afgana che sono state picchiate, torturate e respinte al largo di Lesbo.
La frequenza con cui avvengono questi eventi rischia spesso di normalizzare il fenomeno e di rendere queste violazioni del Diritto internazionale la norma, piuttosto che un reato. La visibilità e la copertura mediatica di questi fenomeni ormai si riduce all’impegno delle ONG presenti sul campo, il cui lavoro viene sempre più ostacolato dalle forze di polizia greche e dalle autorità, che spesso negano questi avvenimenti.

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