Sul campo ti puoi ritrovare ad affrontare molte situazioni differenti, sotto mille punti di vista.

Dall’accompagnare dei pastori nelle loro terre per essere al loro fianco mentre resistono all’occupante, a documentare l’attacco ad un villaggio da parte di coloni armati, o un raid dell’esercito nella casa di una famiglia, all’accompagnare dei bambini nel viaggio che devono fare per arrivare a scuola.
In tutte queste situazioni sei presente attivamente e puoi dare il tuo contributo.
Ma c’è un momento in cui sei presente sul campo e, nonostante la tua presenza, l’unica cosa che puoi fare è assistere, come uno spettatore inerme che non può lasciare il suo posto.
Questo è quello che provi quando assisti alla demolizione della casa, e anche un po’ della vita, di un’intera famiglia.
Quando ho deciso di partecipare al progetto è stato perché non ce la facevo più a essere quello spettatore davanti al telefono o in una piazza a cercare di fare eco a tutte quelle voci spezzate, che da più di 75 anni urlano per denunciare i crimini dell’occupazione, contro il cieco occidente che si tappa le orecchie.
Quando ho deciso di scendere, era per ascoltare quelle persone ed essere al loro fianco nella loro lotta nonviolenta.
Ma quando assisti a una demolizione, tutte quelle convinzioni crollano e ti senti di troppo, senti più forte la tua condizione di spettatore delle atrocità che l’uomo è capace di compiere.

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Oggi c’è una strana nebbia calda che avvolge il sole e il villaggio.

L’aria è ferma, non sembra muoversi niente, anche i colori sono tetri.
Questa è la mia fotografia di oggi e vorrei rimanesse questa.
Anche se l’aria è pesante, non lo è l’animo.
Per un giorno ho dormito, non ho corso, non ho scrutato l’orizzonte.
I pensieri di questi giorni gravitano sulle immagini e le fotografie che mi porto dentro e che cerco di raccontare.
Qualche giorno fa cercavo di tenere in equilibrio una tazza di tè sul copertone di una macchina, mentre con la telecamera inquadravo l’ennesima macchina di un colono che passava vicino alla casa dove avevo dormito. Troppo vicino.
Ero a Umm Dhorit.
Chiamarlo villaggio è dargli una dimensione lusinghiera, ma inaccurata.
Sono due case con i tetti in lamiera tenuti fermi da copertoni e pezzi di cemento, due tende, una struttura per alloggiare gli animali, e un orto rigogliosissimo.
Ci abita una famiglia palestinese e la descrizione poco attraente che ne ho dato – giardino a parte – è dovuta al fatto che le loro case sono state rase al suolo qualche mese fa da un bulldozer israeliano.
Questo è il motivo per cui ero lì.

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Nella foto un pastore nella sua valle, la valle di Rakees, che pascola spingendosi fino al crinale, fino al luogo oltre il quale altri essere umani hanno deciso che lui non può più andare, non ha più questa libertà, sulla sua terra.
È stato tracciato un confine netto, agli occhi molto forte, questa volta non fatto di pietre, recinti o fili spinati, ma di bandiere.
Abusando di un potere che non ha nulla a che vedere con il diritto e l'umanità, a questo pastore viene tolto il diritto di muoversi, di abitare, di dormire senza paura di essere ucciso, picchiato, umiliato, di ricevere protezione da uno Stato che non lo riconosce neanche come essere umano, figuriamoci come cittadino.
Questo pastore si chiama Abu Arun, letteralmente padre di Arun, il primogenito.
Arun però non esiste più, è stato ucciso da una soldatessa israeliana con un colpo di pistola al collo, solo per aver difeso da una confisca il proprio generatore di corrente elettrica il 1° gennaio 2021.

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Quando faccio un passo indietro non sto perdendo contro l’occupazione. Me lo devo scrivere, per imprimerlo nella memoria.
I bambini di Tuba, gli shebab e i palestinesi ne hanno fatti di passi indietro, ma non si sono mai arresi. Per attuare una resistenza bisogna avere pazienza e lungimiranza. Fare un passo indietro per poi un domani farne mille avanti. Perché ne servono mille per riprendersi quella strada. Ma serve che si facciano nel giusto momento.
I soldati l’altro giorno ci hanno minacciato di fermare i bambini che stavano scortando. Li scortano per accompagnarli a scuola, per proteggerli dai civili israeliani che li attaccano con pietre, bastoni e coltelli.
Dovevamo spostarci, fare un passo indietro; esattamente un passo dietro al muretto, quello che segna il “confine di Havat Ma’on”, la terra dei coloni. Quel passo indietro ha un significato profondo, vuol dire che quella terra, libera e palestinese, vogliono che diventi un arido pezzo della colonia, pieno di razzismo e violenza. Rabbia, frustrazione e impotenza. Ma i bambini la scuola la devono raggiungere, devono studiare, devono fare quel passo avanti con la gamba che da anni l’occupazione cerca di amputare: l’istruzione, il gioco, la socialità.

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Martedì 10 ottobre 2023.
Volevo scrivere questo pezzo da un po', ma non ho avuto tempo.
Ecco cosa fa l'occupazione, non ti lascia tempo per scrivere, pensare, sognare, perché vivi nell’incertezza.
Non sai cosa accadrà tra una settimana, ma neanche domani.
Come quando le “colombe” si sono svegliate con gli attacchi da Gaza verso Israele, ed è stato subito un correre.
Correre per andare a filmare coloni armati fino ai denti che minacciano e dettano legge, o soldati che caricano e picchiano, perché sono arrabbiati con i palestinesi, come se tutti avessero premuto il grilletto o lanciato razzi.
E anche tu, volontario, sei visto peggio perché sei con loro che sono considerati tutti terroristi.
I livelli di tensione non sono mai stati così alti; coloni e soldati sono ciechi di rabbia e odio, e al villaggio se ne stanno già vedendo gli effetti. I campi sono stati danneggiati da coloni con il bulldozer, molto materiale è stato sequestrato e volano proiettili di avvertimento se ci si avvicina alle proprie terre.

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