Nell’attesa di poter entrare a contatto con qualche famiglia

Italia/Congo

Goma, Nord Kivu, RDCongo, 27 giugno - Ascolto le “20 massive Hits” di Toots and the Maytals e provo a sbrodolare pensieri e riflessioni sensate su questo luogo e sul mio stare qui. Sicuramente non ci sarà né capo né coda in tutto ciò. Provo a scrivere, provo a buttare giù quello che sento con la pancia. Senza fare grandi riflessioni.
Oggi è una giornata abbastanza tersa e limpida. Stranamente non si vedono le vicine colline ruandesi come non si vede il vulcano Nyragongo che, nelle giornate soleggiate, si erge alto sopra la polvere della strada principale.

I colori dominanti non sono, come spesso si usa raccontare parlando di Africa, quelli caldi e accesi della frutta o dei vestiti delle persone che camminano avanti e indietro, come trottole. Domina il nero, lo scuro.
La polvere che si alza al passaggio dei camion è nera, le strade pure, le baracche sono marroni con i tetti in lamiera grigiastra, le rocce vulcaniche sono color cemento, anche il lago Kivu è molto buio. E a questo si aggiunge ovviamente il colore della pelle degli abitanti di questa città. Anche se in realtà di sfumature di nero ce ne sono a bizzeffe, viste le diverse comunità che vivono in questo territorio.
A volte sembra nero anche il mercato Virunga, dove andiamo a far la spesa. Si vedono distintamente le polverose e caliginose tavole di legno su cui viene ordinatamente disposta la poca frutta e verdura in vendita. Altro che colori. È tutto nero!
Solo i colossali mezzi dell’ONU sono bianchi. Dentro alle camionette vediamo soprattutto soldati tanzani, sudafricani e indiani.
Fa sorridere pensare che noi Colombe siamo gli unici bianchi in giro per le strade, a mangiare polvere e gas di scarico e a sporcarci un po’ quella pelle che qui in Congo sembra fin troppo bianca. Chissà perché tutti i Muzungu (i bianchi) se ne stanno sempre dentro queste jeep rinforzate con gli adesivi e i loghi delle organizzazioni. Credo farebbe bene a Goma, come a tutto il mondo, vedere un po’ di sfumature di colori. A me piace quando nella mia città i neri si confondono con i bianchi. E mi piace anche girare a piedi per questa città, anche se tutti mi notano.
In quasi due settimane di Congo non ho fatto granché se non camminare, parlare e ascoltare. Eppure ho la testa talmente piena di informazioni che mi scoppia.
Abbiamo parlato con le agenzie delle Nazioni Unite (Ocha, Unhcr), abbiamo ascoltato le organizzazioni locali, quelle internazionali, le ONG, alcune associazioni, molti missionari.
Ci hanno dato tutti molte cifre riguardanti il conflitto e tutto ciò che gli gira attorno. Abbiamo visitato il campo di sfollati interni di Lac Vert. Circa 36.000 vivono laggiù.
Abbiamo parlato con laici, religiosi, preti e mangiapreti. Tutti hanno il loro modo di raccontare la situazione: i cooperanti raccontano quello che vedono e conoscono i locali per i bianchi che sono piccoli paradisi con tappeti d’erba inglese, palme e vista lago; i missionari riconoscono la provenienza di una persona dal suo cognome, parlano bene tutte le lingue ufficiali e ricordano come si viveva sotto il regime di Mobutu, gli operatori dell’Onu conoscono molto bene la situazione ma se ne stanno sempre dietro ai loro uffici.
In questi giorni, dicevo, non ho fatto granché. Però qualcosa, in fin dei conti, ho combinato. Innanzitutto, ho imparato i saluti in swahili e ho ripreso il mio francese che si era fermato al liceo. Ho letto molto sul contesto storico e ho imparato alcune dinamiche tipicamente africane. Pare che ovunque vai ti incontri con il presidente di qualcosa o al massimo con il coordinatore o il segretario.  Purtroppo. È conseguenza dell’immenso ciclo di affari che oggi a Goma portano avanti le agenzie dell’ONU e le ONG di mezzo mondo.
Oltre a questo ho visto e notato molte cose. Ho visto alcuni bambini malnutriti nel campo di Lago Verde e mi hanno fatto il cenno sulla pancia per dire: “ehi bianco, tu che hai i soldi, cosa sei venuto a fare! Non mi dai da mangiare?”. Io mi sono girato facendo finta di non aver visto. Per fortuna suor Giovanna che ci accompagnava, poco prima aveva fatto per noi una presentazione dicendo che eravamo un associazione italiana che lavora per la costruzione della Pace. Ho stretto mani con chiunque mi si presentasse. Bambini, adulti. Poche donne.
Ho studiato sigle su sigle di forze armate regolari e irregolari. Gli ultimi che si sono formati in maniera ufficiale, nella primavera del 2012, hanno addirittura aggiunto le cifre perché le lettere non bastavano più.
Ci sono anche delle cose che non ho ancora fatto. Altre che vorrei fare. E altre ancora che non potrò. Quello che non potrò fare in questo mese sarà apprezzare le bellezze naturali del Congo, i parchi nazionali che distano pochi chilometri da Goma, non potrò vedere con i miei occhi i Gorilla di montagna, le piantagioni di caffè, il lago Kivu, la biodiversità di cui è ricca quest’area sia per quanto riguarda i vegetali che per gli animali. Non potrò vedere come vive la popolazione fuori dalla città di Goma e non potrò capire sino in fondo la situazione perché semplicemente non avrò la possibilità di muovermi al di fuori del cordone della MONUSCO che cinge e “protegge” la città da un possibile attacco dei ribelli. “Questione di sicurezza”.
La cosa fondamentale che non abbiamo ancora fatto e che mi piacerebbe decisamente fare è quella di entrare in una casa congolese. Non abbiamo ancora parlato con una famiglia. Non abbiamo chiesto alla gente comune quali sono le loro paure, le paure di donne, mamme, mogli, le paure dei figli, dei ragazzi, delle bambine, le paure di mariti, degli uomini e degli anziani. Quali sono i loro bisogni, i bisogni di donne, mamme, mogli, i bisogni dei figli, dei ragazzi, delle bambine, i bisogni dei mariti, degli uomini e degli anziani.
Questa è la priorità per il nostro viaggio e quindi nei prossimi giorni cercheremo i modi per entrare in qualche casa e parlare con qualche famiglia.
Nel frattempo, posso dire che la guerra, a Goma, non si vede e non si sente. Tutta la gente è impegnata con la solita routine quotidiana. Almeno cosi pare a prima vista. Un popolo in cammino. Corrono di qua e di là trasportando le cose più improbabili con i mezzi più improbabili. Oggi ho visto una signora con un bambino legato sulla schiena, due buste giganti nelle due braccia e una cesta in testa piena di cavolfiori.
Appena suona la sveglia per donne e bambini tocca qualche bel chilometro a piedi per raccogliere l’acqua del lago Kivu. Contando che la regione è la seconda al mondo per la ricchezza di fonti di acqua dolce (dopo il bacino tra Canada e Stati uniti), mi “pare giusto” che le famiglie congolesi non abbiano l’allaccio dell’acqua dentro le loro case.
Dicevo, un popolo che cammina. Camminano tutti e durante questi giorni c’è ancora più gente nelle strade, i piccoli sono in vacanza da scuola e quindi giocano per le strade e i più grandi hanno da fare gli esami di stato. Vedremo come sarà la situazione, nelle strade, la prossima domenica, quando in tutto il Congo si celebrerà la giornata dell’Indipendenza.
La guerra dicevo, non si vede. E a prima vista pare non ci sia. Si notano però le massicce conseguenze di essa: mentre io mi sono fermato per dieci giorni in un appartamentino abbastanza vicino al confine con il Rwanda e quindi a una via di fuga facile, in caso di attacco in città, circa 1500 persone, solo nei giorni della mia presenza, hanno dovuto lasciare le loro terre e le loro case a causa delle minacce e della violenza. Gruppi armati congolesi, gruppi rwandesi, hutu, tutsi, partigiani in armi, esercito regolare, polizia di frontiera, polizia militare. Tutti gli attori armati presenti si sono resi protagonisti di atroci inumanità.
Si può dire macabrità? Beh qui, si può dire. Hanno rapito, stuprato, saccheggiato, bruciato, depredato, ucciso, torturato, assoldato. Hanno fatto tutto quello che di inumano si instaura nell’uomo, in tempo di guerra. Quello che tutti gli attori armati, insieme, hanno perpetrato è un sistema di insicurezza e precarietà che coinvolge tutte le persone che vivono in questa regione, in special modo, donne, anziani e bambini.
L’instabilità e la precarietà della vita di questa gente è visibile. Una media famiglia congolese è dentro casa alle 18. Il coprifuoco non è legge pubblica, ma è consuetudine che tutti seguono. Chi ha un pezzo di terra da coltivare prova a tenerselo stretto. Per gli altri, la questione che si pone è scappare o morire. Scappare significa vivere da profughi nella propria provincia. Significa vivere di assistenza internazionale. Significa vivere di piccoli commerci o piccoli espedienti. Significa condividere con altre 79 famiglie una tenda da 100 metri quadri.
Un'ultima riflessione viene dalla parola Responsabilità. Che ha un diverso significato di Colpa. Ne parlavo con un volontario di Operazione Colomba come me.
Colpevoli sono coloro che scacciano, stuprano e depredano. I ribelli, gli eserciti.
Responsabili siamo noi.
La responsabilità del nostro mondo e del nostro modo di consumare è forte, decisivo. Si vede negli occhi di chi incontro per strada. Si vede nei dati che ogni volta che sento padre Alex Zanotelli enuncia con orrore: il 90% delle risorse del pianeta terra è sfruttato dal 10% della popolazione mondiale. Il restante 10% al 90% della popolazione. Io sono il 10%. Loro sono “il restante”. La gente con cui condivido la polvere per strada prova un senso di inferiorità nei confronti dei bianchi che è imbarazzante. È una forma estrema di razzismo di cui i congolesi non sono a conoscenza. Non vi è una coscienza critica che ricorda che i bianchi hanno reso schiave molte popolazioni africane per secoli, non si ricorda che i bianchi hanno colonizzato le loro terre come fossero le villette di campagna torturando e deportando, nessuno dice che i bianchi che sono a Goma oggi come cooperanti, continuano a portare avanti le diseguaglianze globali, in modo strisciante, creando problemi dove ci sono già problemi, continuando a militarizzare una provincia già di per se militarizzata, continuando a offrire beni di sussistenza senza lavorare sulle cause delle ingiustizie.
In tutto ciò io cammino, con i miei compagni Stefano ed Elena, leggo, studio.
Nell’attesa di poter entrare a contatto con qualche famiglia.

Tommaso