Lotta contro la vita

Italia/Congo


Alle 8:15 partiamo con un padre missionario, da ormai vent’anni a Goma, per la visita di due campi profughi a nord della città: Mugunga 3 e Buhimba. Gli sfollati interni che vivono in questi campi provengono da zone distanti fino a 250 km. Durante il tragitto Padre P. ci racconta di quante volte siano arrivati finanziamenti, anche dall’Unione Europea, per rifare le strade, e tutte le volte sono andati persi a causa dello scarso controllo.

La maggior parte dei campi profughi vengono gestiti da congolesi, amministratori locali che spesso fanno fermare dei camioncini carichi di cibo, previsti per i profughi, qualche metro prima dell’entrata e prendono una parte per rivenderla in città. Secondo P. c’è convenienza a che tutto rimanga cosi com’è: sia organizzazioni internazionali sia i politici locali guadagnano dalla sofferenza della gente. Ad un tratto padre P. si ferma per mostrarci quel che rimane di Mugunga 2: nulla. Mugunga 2 era un sito spontaneo di profughi dove risiedevano circa 3000 nuclei familiari che sono stati costretti a spostarsi a causa della decisione dell’OIM (organizzazione internazionale migrazione). Il campo sembra un cimitero: macerie e silenzio. Il padre ci dice che l’ordine di smantellamento è arrivato all’improvviso e le famiglie se ne sono dovute andare a causa dell’insicurezza.
Ripartiamo e arriviamo a Mugunga 3: unico campo nella provincia di Goma organizzato e assistito da organizzazioni internazionali. Nel campo risiedono 16.500 sfollati. Padre P. celebra messa all’interno di una piccola cooperativa che produce saponi, gestita da un gruppo di donne vittima di stupri e affette da AIDS. Nel frattempo noi facciamo quattro passi sulla strada principale del campo. Le tende sono più grandi rispetto a quelle che abbiamo visto a Lac Vert, altro campo profughi, ma la desolazione è sempre la stessa. Poi, finita la messa, aiutiamo padre P. nella distribuzione di farina e olio. In questo campo a febbraio la PAM (programma alimentare mondiale) ha subappaltato l’acquisto di 35 tonnellate di fagioli da un’azienda locale che, per guadagnarci, ha acquistato fagioli a breve scadenza che sono arrivati al campo marci.
Seguiamo padre P. perché parlerà a cinque donne stuprate nelle ultime settimane. Chiede loro nome, cognome e provenienza. Quasi tutte arrivano da Masisi e Rutshuru. Capisco parole come uniforme e M23, il famoso gruppo armato ribelle. Loro, come ci tradurrà padre P., sono state spogliate e violentate e poi, i ribelli, o pseudo tali, hanno rubato loro i vestiti, e quindi sono state costrette a ritornare al campo nude. Doppia umiliazione. Poi parla con altre cinque donne stuprate la settimana scorsa. Erano a fare legna a qualche chilometro dal campo profughi ed ecco che altri uomini, alcuni in divisa altri no, hanno abusato di loro. Fra le donne c’è una signora di 62 anni che hanno schiaffeggiato. Padre P. fa loro delle foto come testimonianza. Di fianco a me c’è una ragazza di 16 anni, con sua figlia di pochi mesi in braccio, mi guarda. Mi passa la bambina per sistemarsi il vestito, o straccio, a seconda dei punti di vista, che ha addosso. Mi guarda ancora. Nel suo sguardo c’è una profondità fatta di luce e ombra. Luce di madre e ombra di donna violata. Vengo trasportata e catturata in quell’abisso. Perché? Perché una donna deve provare un simile abuso? Dicono che ormai lo stupro sia diventato arma e cultura di una guerra senza fine. Chissà se queste donne si rendono conto che quello che è successo è da condannare. Chissà come fanno a sopravvivere a quel dolore. A cosa si aggrappano? Qual è la loro ancora? Sono fuggite dalla loro terra e costrette a vivere in un campo profughi in condizioni oscene, poco dignitose; vittime della crudeltà dell’uomo, lui stesso vittima delle armi, del potere e di una ricchezza a cui ambisce, e di una sostanziale difficoltà a riconoscersi dentro una società che non esiste. Tutti vittima di un sistema che vuole mantenere lo status quo per interessi.
Vittime innocenti di un potere diabolico.
Colpita da mille domande che si scagliano come macigni sul fondo della mia coscienza mi scuoto nuovamente quando padre P. le congeda segnandole in fronte con il segno della croce. Una croce che "dovrebbe" lenire le loro ferite, cancellare i segni di ogni sofferenza e dolore passato e futuro. Mi stringo i pugni, ho in braccio ancora quella bambina che stringo forte a me; vorrei impedirle di soffrire e di vedere l’orrore di una guerra che anche il sistema di cui faccio parte lo alimenta. Anch’io ho le mani sporche di sangue e non so darmi pace.

El.