"Potevo rimanere offeso"

Mykolaïv, Ucraina, è domenica sera, sono le 8, ma il cielo è ancora chiaro, un temporale appena passato ha reso l’aria fresca e nitida.
Come ogni dopo-cena esco dal cancello della comunità che ci ospita e giro l’angolo.
È il mio momento personale per "riprendere fiato": togliermi un attimo da una ricca e densa quotidianità di relazioni, fumarmi una sigaretta, guardare le ultime chat sullo smartphone, sentire come stanno a casa.
Ed è proprio durante una telefonata che succede.
Non so neanche come definirlo, uno scoppio, un boato, qualcosa di fortissimo, mai sentito prima! Capisco all'istante di cosa si tratta, anche se le sirene questa volta non hanno suonato.
Ho il cuore in gola, mi alzo di scatto e accelerando il passo vado verso il cancello.
Un altro boato.
Incontro la faccia familiare e preoccupata di Ale "Bombardano! Dentro, dentro!".
E mentre scendiamo le scale per entrare nel rifugio, un altro ancora, il terzo.
Questa volta i razzi sono arrivati molto, ma molto vicini.
Siamo dentro.

Un abbraccio ad Ale e un bicchier d'acqua.
Poi provo ad ascoltarmi.
Il mio corpo dice che è successo qualcosa di grosso, le mie gambe sono stanche, il respiro è diverso e la testa va altrove.
Mi sforzo di stare sul presente.
Ed è lì che affiora e lo lascio venire a galla da solo, come una bolla nell'acqua che arriva in superficie e scoppia.
Mi sale un senso di offesa.
Offesa mista ad una buona dose di "incazzatura", in primis verso la mia persona.
"Ma come vi permettete di lanciarmi contro dei razzi?".
Mi guardo intorno nel rifugio.
"Ma come vi permettete di lanciare dei razzi contro queste persone?".
Che per noi non sono più "solo" persone ma Edmund, il pastore che ha porto l’orecchio e le braccia della sua comunità a chi chiede aiuto; Uova, che cucina per noi e si arrabbia se non mettiamo l’acqua in frigo; Olec, che macina chilometri e rischi per portare aiuti umanitari ai villaggi vicino al fronte; "babushka" Vera, che viene in rifugio perché ha paura a stare a casa da sola; Svetlana, che ogni notte russa accanto al nostro letto e ogni mattina ci richiama sugli orari; Natalia, che ci abbraccia ogni volta che ci vede; Alek, che prova a parlarci nel suo inglese incerto.
"Come vi permettete di lanciare razzi su tutta questa gente?".
Lo dico a tutti quelli che maneggiano armamenti: "Come vi permettete a tirare missili su - li vedo ogni giorno dal mio posto solitario al di là della strada - donne che portano a casa l’acqua potabile, bambini che escono in bici, adolescenti che se la ridono, vecchietti che passeggiano con il cane?".
Perché quello che si vede da dentro sta guerra (e credo da tante altre in giro per il mondo) è che la strategia principale consiste nell'ammazzare le persone.
Stroncare le loro vite, ucciderle o costringerle a fuggire.
In quanto a me… direi che "potevo rimanere offeso" ma così non è stato.
Sono circondato, qui ed anche a casa, da persone che mi vogliono e a cui voglio bene.
Ed è questo che guarisce.
Sto facendo veramente esperienza che condividere scomodità e rischi della guerra, aiutarsi insieme, fa emergere tutta l'umanità che ci portiamo dentro e questo dà senso alla vita e anche un'alternativa alla guerra.
La prima è che anche se questa macchina infernale di morte ci vuole cancellare o farci andare fuori da questa terra, queste persone rimangono qua, continuando a vivere, implicitamente rivendicando che questo è uno spazio loro e la guerra non ha nessun diritto di appropriarsene.
Me l’ha detto ieri sera Maxim in due parole :"io resto qui fino alla fine".
E a chi mi dice che me la vado a cercare, che potevo starmene a casa (e ha tutto il diritto di farlo) io dico che quando vediamo noi stessi negli altri e gli altri in noi stessi, il nostro modo di vivere nel mondo si trasforma profondamente.
E il cambiamento della percezione provoca un cambiamento del cuore.
"Hai mai amato veramente?".
"Dovresti provare…".
"Hai mai amato veramente?".
"Per questo vale la pena vivere".

M.