Ia ni panemaio

"Ia ni panemaio, italianski. Inglish?" è quello che sbiascico quando qualcuno in giro mi rivolge la parola.
Più o meno in russo vuole dire "non capisco, sò italiano".
E davvero non capisco.

Sono alla mia terza esperienza qui in Ucraina. Ho partecipato a due carovane di #stopthewarnow, ad aprile a Leopoli e a giugno a Odessa.
Una schiera di pulmini, carichi di cibo, medicine, generi di prima necessità.
5gg di corsa, andata e ritorno.

Ogni volta, al ritorno, cercavo di stare connesso a questo conflitto, come un assetato avevo sete di informazioni.
Volevo capire, io che della guerra non ho capito niente.
Continuando a non capire niente, sentivo progressivamente sempre più il bisogno di muovermi attivamente, di fare "qualcosa".
In prima persona.

Sono un uomo fortunato, non mi manca niente.
Oserei dire che sono ricco.
Ho partecipato alla manifestazione nazionale a Roma di #europeforpeace e, tornato da quella, ho sentito che non potevo più rimanere sul mio comodo divano a dichiararmi contro la guerra.
Non capivo, ma sentivo il bisogno di fare qualcosa.
Di muovermi in prima persona.
Di fare qualcosa non tanto per le vittime di questo conflitto ma con le vittime di questo conflitto.

Ho scelto allora di contattare nuovamente Operazione Colomba per poter "vivere concretamente la nonviolenza in zone di guerra".
E così, con la benedizione di quella santa di mia moglie e dei miei figli sono partito.
Aereo fino a Chisinau, dove ho potuto godere dell'accoglienza, ospitalità e gentilezza del popolo moldavo e la mattina dopo bus fino ad Odessa.
Di nuovo in viaggio, destinazione Mykolaïv, dove Operazione Colomba è presente da mesi, condividendo la vita con la popolazione locale.
Siamo in un centro di recupero per alcolismo dove da 7 mesi vivono circa 15 persone.
Uomini e donne dai 10 ai 70 anni.
Ognuno con la sua storia.
Da ascoltare... anche se non capisco li ascolto.
A volte si usa Google Translate, a volte si usa semplicemente il cuore e lo sguardo.
Ia ni panemaio.
Non capisco.
A volte invece mi sembra di sì.
La mia vita non è più importante della tua.
La mia vita ha senso se ha senso la tua.

La vita qua si svolge lentamente: di giorno diamo una mano a dividere e spostare i vari aiuti umanitari che giungono da ogni parte del mondo.
Di notte dormiamo insieme nei sotterranei, al riparo (?) dalle bombe e dai razzi che potrebbero cadere dal cielo.
Da quando i russi si sono ritirati al di là del fiume non sono più arrivate ma gli allarmi aerei talvolta ci sono.
Una sirena che squarcia il giorno o la notte e risveglia un terrore atavico.

Oggi, lunedì 21 novembre, siamo andati a Shyroke, un paese dal quale l'esercito russo è appena andato via.
I primi viaggi a Shyroke sono stati fatti dalla Caritas locale negli scorsi giorni.
Non ci avevano mai portato con loro, il rischio mine era troppo alto e gli artificieri non avevano ancora finito il loro lavoro.
Oggi gli artificieri sono altrove, in altre zone poco distanti dove - ci viene raccontato - le mine sono nascoste sotto i cadaveri e nelle macchine abbandonate.

Carichiamo stamattina in una fitta nebbiolina 2 generatori di elettricità e 500 cartoni, ognuno contenente cibo di vario tipo.
Li carichiamo in un furgoncino bianco sporco ed arrugginito, con il motore che non si spegne, il portellone posteriore che devi sperare che si apra, gomme quasi lisce e le immancabili tendine interne.
Siamo in 5.
Io, Jack (volontario come me di Operazione Colomba, da Milano), Oleg (il nostro leggendario autista accogliente), Dima (che con la guerra ha perso il lavoro e da allora cerca di aiutare il suo popolo) e Sasha (videomaker ucraino che cerca di raccontare quanto viene fatto).
Superato il check point in uscita dalla città, il paesaggio diventa progressivamente più rurale.
Qua e la segni della guerra... trincee, buchi nel terreno, sacchi di sabbia, strade chiuse parzialmente con copertoni.
Buchi di artiglieria.
Dobbiamo fare delle strade secondarie per arrivare a Shyroke.
La strada principale è chiusa.

Ci fermiamo a metà strada circa.
La strada nella quale siamo è asfaltata ma piena di buche.
Ai lati, fango dappertutto.
La pioggia di questi giorni ha trasformato le strade sterrate laterali in fango puro.
Ci fermiamo in un piccolo negozietto locale.
Attorno non c'è praticamente niente, campi e qualche casetta, ma dietro a questo negozietto passa la ferrovia.
Qui troviamo i soldati ucraini, di ritorno da Cherson con destinazione Donbass.
Non ne ho mai visti così tanti in vita mia.
Sono armati, armi di tanti tipi.
Sono infangati e infreddoliti.
Si fermano al baretto a prendere un caffè, un panino e poi si dirigono con passo stanco ed appesantito alla banchina della ferrovia in attesa del treno.
Mi colpisce in maniera particolare un ragazzo, avrà 20 anni, ma a guardarlo in faccia ne dimostra 50.
Mi chiedo cosa potrà avere visto, cosa avrà dovuto sopportare o fare.
Le sue mani sono sporche di fango, è l'unico soldato con le mani sporche.
Vediamo altri lavarsi le mani nelle pozzanghere (qui non arriva più l'acqua) ma lui no.
Entra, prende un caffè, esce, con lo sguardo spento ci guarda.
Appena esce un suo commilitone lo segue verso la ferrovia.
Si ferma un carro attrezzi che ha caricato sul pianale un camioncino color militare.
Ha dipinto sul vetro posteriore una croce e due coltelli.
Non capisco.
I soldati sono dappertutto.
Sotto la bandiera nazionale, quasi tutti hanno un altro stemma.
Teschi, coltelli, spade incrociate, carri armati.
Solo a guardarli ho paura.

Eppure non sono minacciosi con me.
Indifferenti.
Stanchi morti probabilmente.
Non so e continuo a non capire.

Ripartiamo, qua e la ci sono automezzi distrutti ai lati della strada.
Un campo è pieno di buchi.
La strada asfaltata nella quale siamo pure.
Occorre fare lo slalom.
I buchi non sono causati dall'incuria ma dai bombardamenti.
Fino a poco fa qua si combattevano i due eserciti.
Arriviamo al paese.
I nostri accompagnatori ci dicono: vi do dei soldi se trovate tre case con il tetto intero.
Ma porcap... non è solo il tetto.
Qui non si riesce a trovare UNA casa che non sia in qualche modo danneggiata.
Tetti distrutti, si ma anche buchi grandi come un pugno nei muri, nei cancelli, nelle porte.
E questi sono solo i danni indiretti.
Le schegge del missile ti fanno buchi grandi come un pugno, se è il missile vero e proprio che colpisce la casa non rimane proprio niente.
È un pugno nello stomaco.
Non capisco perché mi faccia così tanta differenza nel vederlo dal vivo.
Non mi sento molto bene.
Arriviamo e in pochissimo la persone vengono fuori.
Da questo villaggio che sembrava disabitato.
Qui durante l'occupazione - ci viene raccontato - hanno mangiato persino i cani per la fame.
La prima volta che hanno portato gli aiuti umanitari le persone li hanno aperti subito e mangiati sul posto con le mani.
Le persone si mettono in fila ordinatamente e prendono il pacco e subito si allontanano. Scompaiono così come erano comparsi, sembra una magia.
Non capisco.
Dopo il pugno nello stomaco, arriva la coltellata: vedere i bambini.
Come hanno fatto a sopravvivere, a sopportare tutto questo?
Non so e non capisco.
Ma non c'è tempo purtroppo per fermarsi più di tanto.
Dobbiamo portare gli aiuti anche in un altro villaggio poco distante e scaricare il rimanente in un magazzino, verrà distribuito nei prossimi giorni.
Tutto rotto.
Tutto.
Tutto.
Case, scuole, edifici governativi, strade, pali della luce, acquedotto.
Qui non c'è luce, non c'è acqua, non c'è riscaldamento, non c'è internet.
Non capisco.
Capisco solo che la guerra è una me**a.

Torno e scrivo questo che leggete, di getto.
Non esaustivo.
Non riletto.
Non sono uno scrittore ne un giornalista.
IA NI PANEMAIO.

M.