Una cicatrice indelebile

Centinaia di anziani, madri e bambini in fila al freddo ad aspettare il proprio turno per ricevere un sacchetto con all’interno alimenti basici per sfamarsi per qualche giorno.
È da mesi ormai che inizia così la giornata di migliaia di persone in queste zone del Paese.
Oggi sto aiutando la comunità a fare i pacchetti e non ci si ferma un secondo per stare al passo con tutte le persone che sono fuori in attesa.
Dopo svariate ore, le persone iniziano a diminuire e noi riprendiamo un po’ di fiato; finalmente riesco a conversare un po’ con i vari collaboratori, in particolare con P., con cui rimango fino alla fine della giornata per organizzare e sistemare i diversi pacchi che serviranno per l’indomani.
Dopo varie domande personali per conoscerci un po’ meglio, gli pongo alcuni quesiti sul conflitto, ma a differenza della persona che ho incontrato settimane fa, lui mi da risposte più incalzanti e sentite.
P. è un ragazzo di 30 anni, è sposato e ha avuto da poco un bambino.
“Cosa pensi di tutta questa situazione?”.
“Allo scoppio della guerra mio figlio aveva circa 1 mese, secondo te come ci si può sentire a scappare in un rifugio buio e umido con la moglie e in braccio un neonato?”.
È arrabbiato ma anche afflitto, si percepisce dalle sue espressioni corporali e facciali.
“Prima lavoravo al consolato polacco qui in città, avevo un lavoro che mi piaceva ed io e la mia compagna eravamo felici essendo appena arrivato il piccolo. Da un giorno all’altro, a causa di un’unica persona megalomane e fuori di testa, ci siamo ritrovati senza lavoro e con R. da crescere in questa situazione. Mi sembra assurdo vivere tutto questo nel 2022”.
E’ veramente frustrato e stanco per tutti questi mesi passati dall’inizio della guerra.

Capisco che è meglio non continuare a fargli domande inerenti al conflitto, e sposto il discorso su un altro argomento:
“Tua moglie e tuo figlio sono ancora in città o si sono spostati da qualche altra parte?”.
“Si si sono ancora qui, la famiglia deve restare vicina, o meglio, io la penso così”.
P. lavora alla Caritas da quando è iniziata la guerra, lo stipendio ovviamente è una miseria, ma mi dice anche che è il suo modo di stare vicino alla sua gente e aiutarla in questa situazione.
Lo sento che ci tiene davvero, ormai passa tutte le sue giornate a lavorare per loro e si vede che ci mette tutto se stesso.
Appena finiamo di sistemare mi riaccompagna al mio appartamento.
Poco prima di salutarci mi abbraccia sorridendo e mi ringrazia per aver dato una mano; non ha più l’espressione arrabbiata di prima, mi immagino stia pensando che finalmente sta per tornare dalla sua famiglia e in Ucraina, oggi giorno, non è una cosa così ovvia.
Tante famiglie sono state separate, tante routine modificate e soprattutto tante vite sono state distrutte.
Questa è la guerra.
Un mostro visibile e devastante che cambia per sempre la vita di milioni di persone.
Perché gli effetti della guerra non sono solamente evidenti durante il conflitto, ma ce ne sono altrettanti celati che dovranno essere affrontati negli anni venturi.
Inizio a paragonarla ad una cicatrice profonda e indelebile che sta segnando per sempre la loro anima e che forse non andrà più via.
Dovranno imparare ad aiutarsi e fidarsi gli uni degli altri per poter andare avanti, tutti insieme per arrivare ad un unico obbiettivo comune finale: tornare alla “solita routine”.
Tornare alla propria abitazione, se non è stata distrutta, tornare ad abbracciare la propria famiglia, se quel mostro non l’ha portata via con sé.
Routine banali o considerate superficiali per chi non vive direttamente un conflitto.
Non per queste persone, non per chi è stato segnato per sempre.
Loro adesso capiscono quanto sia importante, quanto non sia scontato abbracciare una persona.
Vorrei dire qualcosa a P., ma non ho mai provato ciò che sta vivendo lui; mi limito quindi a sorridergli e ricambiare l’abbraccio.
Sto iniziando a capire che la vicinanza, anche espressa attraverso un semplice abbraccio, è molto più significativa di mille parole.

GC