Un asino nella baia di San Francisco

Arianna, Corrado e io, oggi accompagniamo due pastori della comunità di Mykolaiv a Kherson dove terranno una celebrazione con il gruppo locale di fedeli, nel teatro del centro culturale.
Sarebbe la domenica di Pasqua ma, grazie al fatto che indosso un giubbotto antiproiettile da 15kg, la cerimonia prende rapidamente le sembianze di una via crucis.
Gli spallacci hanno la piacevole caratteristica di segare le spalle sia stando in piedi che seduti; le placche protettive, rigidissime, impediscono la flessione del tronco, per cui si è costretti a starsene impalati in una posa rigida e innaturale e io, che amo stravaccarmi, non ho muscoli allenati per reggere a lungo una posizione simile. La placca frontale si comporta come un rottweiler sdraiato sul petto, è maledettamente difficile respirare e, se si prova a fare un bel respiro profondo, a metà strada ci si deve arrendere e tocca occuparsi d’altro.
Alle 11.00, puntualissimo, l’esercito russo augura una buona Pasqua ai cittadini di Kherson con il primo colpo di artiglieria e, siccome il sermone del pastore prosegue come nulla fosse, mi farebbe piacere fare qualche bel respiro profondo per rallentare il battito cardiaco, ma il rottweiler nascosto nel giubbotto me lo impedisce. Alla decima esplosione smetto di contarle e stabilisco che, se nessuno si preoccupa, posso evitare di farlo anche io.
I can ear the fireworks-
up & down, up & down-
up & down the San Francisco Bay.

Pasqua non è “Almost Independence Day”, ma immaginare colorati fuochi d’artificio al posto di crateri aiuta a non concentrarsi troppo sull’origine delle esplosioni.
Non che questo impedisca al mio sfintere di avere una contrazione involontaria ad ogni botta.
Mentre sono impegnato in queste faccende di gestione emotivo/intestinale E., il pastore, indica noi tre volontari della Colomba e ci chiede di alzarci. Arianna, Corrado e io ubbidiamo e ci voltiamo verso la platea.
E. dice (capisco il senso generale grazie al traduttore di Google): “Questi italiani sono venuti a proprie spese, sacrificando il loro tempo per stare con noi, per portarci aiuto. Non è la prima volta che vengono a Kherson, il desiderio di aiutare l’Ucraina è nei loro cuori. Sapete, quando li guardo mi pare un grande incoraggiamento da parte di Dio, sembra quasi che mi dica - Ascolta, non sei solo, ci tengo a te -”.
Parte un applauso da parte di tutto il teatro. Da una parte quasi mi emoziono, è un riconoscimento che fa piacere, è innegabile.
Dall’altra un po' mi imbarazzo; non ho una percezione superomistica della mia presenza qui, anzi.
Motivo per cui mi fa strano che un paio di centinaia di persone, quasi tutte anziane, applaudano noi, gli unici tre cialtroni in tutto l'edificio con addosso un giubbotto antiproiettile, gli unici che hanno la libertà di tornare a casa al sicuro mentre la loro città continuerà a ricevere fuochi artificiali russi anche nei giorni feriali.
E. sorride e ci fa segno di sedere mentre lui prosegue il sermone.
Sono grato per le sue parole ma non mi spingerei a paragonarmi ad un intervento divino, non ho grandi competenze teologiche e certi giorni mi definisco epicureo senza pensarci troppo.
Avrei bisogno di un ruolo tra il sacro e il profano per rendermi utile.
Poi, all’improvviso, l’illuminazione.
Non so se entrerei a Gerusalemme con in spalla qualcuno, ma il ruolo dell’asino posso farlo: spostare sacchi di farina da cinquanta chili o portare pacchi di aiuti dove serve va benissimo, alla comunità di Mykolaiv già lo faccio alla grande e, se mi venisse chiesto di alitare su un bambino per tenerlo al caldo il prossimo Natale potrei sempre provarci.
Che sia Betlemme o Kherson fa lo stesso. Amen.

G.