Nonviolenza, violenza, passività

Ciao Kappa,
stavo guardando un'intervista a Norman Finkelstein su Gandhi e su ciò che intendeva con nonviolenza.
Cosa ne pensi?
Tantissime volte mi sono trovato a discutere con altre colombe o con altre persone che si definiscono nonviolente su quale sia peggio tra "non fare nulla" e farlo violentemente, e l'impressione che ho è che sia sempre la violenza ciò che viene identificato come il male maggiore. Personalmente non sono d'accordo per nulla e trovo che questa "considerazione" della violenza come l'esatto opposto della nonviolenza sia ciò che rende i movimenti sedicenti nonviolenti, incapaci di parlare con le varie realtà di lotta che invece lottano in modo concreto, ma in modo violento.
Peo


Grazie della fiducia Peo, provo a rispondere.
La prima parte di una lotta nonviolenta Gandhi la chiama purificazione, nel suo caso si recava presso la comunità che voleva affrontare una ingiustizia e iniziava un digiuno, un percorso cioè che lo rendesse più vicino al dolore che l'ingiustizia portava a quella comunità.
Giusto per non parlare di teoria con la Colomba, per capire che proposta nonviolenta fare rispetto alla guerra in Siria, abbiamo cominciato a vivere in un campo profughi: come accidenti capiremo qualcosa se non attraverso la nostra vita, attraverso il nostro vivere con persone traumatizzate dalla guerra, torturate, scappate e costrette ora a vivere come indesiderati in terra straniera?
E come potremo proporre qualcosa senza la credibilità che viene dalla solidarietà concreta con chi ha provato la violenza della guerra su di sé?
Che la risposta sia nonviolenta o armata questo primo passo mi sembra importante per evitare di portare un proprio conflitto dentro una guerra e chiamare impegno quello che rischia di essere fuga, proiezione , chiacchiera, ideologia, ribellione "ormonale"... e non portare un modello esterno, una rabbia ulteriore in una situazione che richiede soluzioni nuove e inedite.

Quanto al "contrario della nonviolenza" Gandhi la considera senza dubbio la passività, il parlare e non far nulla, mentre guarda con rispetto a chi fa una scelta anche violenta di difesa, se non altro, per il coraggio e il coinvolgimento personale che comportano.
Da qui l'affermazione nota: “E' più facile tirar fuori un nonviolento da una persona violenta che da una persona passiva ed indifferente”.
E' un invito per me a entrare nei problemi, a viverli, la scelta del come rispondere verrà dopo.

Sulla scelta di come rispondere: quello che non mi pare accettabile nella violenza è il fatto che attraverso noi richiama altra violenza e morte, ne vedo gli effetti su chi la compie e non mi piace il fatto che disumanizza l'avversario e quindi anche me.
Ma non disumanizza forse ancor di più l'essere passivi?
Sicuramente la passività è una delle caratteristiche del nostro mondo oggi.
La nonviolenza invece io la vedo come una forza, sempre esistita, ma che ognuno personalmente può sperimentare, viva, quindi sempre nuova e creativa.
Una forza che mi rende più uomo, più capace di amare, di aver coraggio di cambiare le situazioni, che mi rivela il meglio e non il peggio di me, una scelta con cui è più semplice continuare a vivere.
K