VISIT PALESTINE: CARTOLINE DAI TERRITORI OCCUPATI / 5

Firing zone ed esercitazioni militari

Amira apre gli occhi.
È notte, ma fuori da quelle quattro mura che chiama casa, qualcuno urla.
È una fredda notte di dicembre, le coperte la avvolgono come un fagotto, quando vede la porta di casa aprirsi con violenza.
Amira conosce quei volti.
Li incontra ogni giorno, nella strada verso scuola, nelle valli poco distanti, vicino all’avamposto che sorge a pochi metri da casa sua.
Conosce quei soldati che urlano a lei e alle sue sorelle, a sua madre e a sua nonna, di alzarsi.
Cercano armi, qualcosa che hanno perso quel giorno, ed accusano i palestinesi di averle nascoste nelle loro case.
Suo padre, poco dietro, cerca di allontanarli, mentre sua madre cerca qualcosa per coprirsi il capo.
Lì, nella stanza dove lei e le altre donne hanno sempre dormito, Amira non ha mai avuto paura.
Non prima di quella sera.

I soldati cercano qualcosa.
Lo cercano tra le coperte, dentro i pochi mobili presenti, perfino dentro alla teiera con cui, ogni giorno, Amira prepara il tè per sua nonna.
Sono violenti, urlano, non le lasciano uscire, mentre fuori il resto del villaggio cerca di fare qualcosa.
Un bicchiere da tè cade, Amira lo vede andare in pezzi, i cocci sparpagliarsi sul pavimento e tra le coperte.
Dura pochi minuti, ma sembrano ore.
Quando la casa è a soqquadro, i soldati continuano, verso la casa dopo.
Amira vede sua madre seguirli, così come tutte le altre persone in quella stanza, consapevoli di non poter fare altro per fermarli.
Seguirli.
Insieme, tutto il villaggio, così come i villaggi vicini.
Le prime stelle stanno scomparendo in cielo, segno che la mattina si sta avvicinando e per Amira questo vuol dire dover andare a scuola.
Sua nonna la riporta a letto, mentre i soldati continuano, casa per casa, a cercare qualcosa di indefinito.
Deve dormire, ha scuola il giorno dopo.
Guarda un’ultima volta quegli uomini e quelle donne entrare in un’altra casa, prima di tornare a letto, tra le coperte buttate a terra e il fango portato da quei militari all’interno.
Deve dormire, entro poche ore dovrà andare a scuola, camminare per mezz’ora, sotto quell’avamposto, incrociando quei soldati.
Come ogni mattina, Amira si alzerà ed andrà a scuola.
Ma prima, aiuterà sua madre a rimettere in ordine quella stanza.
Come ogni mattina, Amira andrà a scuola.
Perché quella è una mattina come le altre, in Palestina.

Secondo gli Accordi di Oslo, il 60% della Cisgiordania è classificata come “Area C”: una porzione di territorio palestinese sotto controllo militare e civile israeliano.
Questa particolare situazione giuridica rende possibile, per l’esercito israeliano, dichiarare intere aree abitate come zone di addestramento militare, permanenti o momentanee.  
In queste zone militari, circa un terzo dell’intera area C, è formalmente proibito l’accesso ai palestinesi ed i residenti subiscono di continuo demolizioni e dislocamenti.
I training militari possono prevedere anche l’utilizzo di proiettili veri e talvolta causare l’abbandono sul suolo di munizioni inesplose.
Nelle colline a sud di Hebron, l’esercito israeliano istituì all’inizio degli anni ‘80 la cosiddetta Firing Zone 918, con un impatto devastante per i residenti dei 12 villaggi palestinesi lì presenti.
Nel 1999 furono espulsi tutti gli abitanti palestinesi dell’area.
Successivamente ad un procedimento legale portato avanti da attivisti israeliani ed internazionali, oltre che dagli stessi abitanti dei villaggi, l’Alta Corte di Giustizia israeliana riconobbe agli stessi il diritto al ritorno, senza però smantellare la Firing Zone.
Nel 2012, durante il processo dinnanzi all’Alta Corte di Giustizia, le autorità israeliane hanno confermato l’intenzione di demolire otto di questi villaggi.
La zona di addestramento militare sussiste ancora oggi nonostante la sua completa illegalità secondo il diritto umanitario internazionale.
La popolazione continua a vivere sotto la costante minaccia di demolizione, espulsione ed espropriazione.