VISIT PALESTINE: CARTOLINE DAI TERRITORI OCCUPATI / 10

Beit Ijza – Vivere in gabbia

Suleiman è in silenzio, mentre beve il suo caffè, seduto sui gradini davanti alla porta di casa.
Osserva le telecamere che monitorano ogni centimetro della sua casa.
Sono puntate sul piccolo corridoio che collega la casa al cancello di metallo, e sulla recinzione, sul muro alto sei metri che delimita i pochi dunum che gli sono stati lasciati.
Osserva le telecamere, che puntano su quei due metri che distanziano la recinzione dalle mura dell’insediamento: quei due metri, che Israele voleva che fossero solo 60 centimetri, e che Suleiman ha conquistato, giorno dopo giorno.
Osserva le case dell’insediamento.
Sono cresciute ancora, sono sempre più grandi, o forse lui le vede così: opprimenti, soffocanti, tutte attorno a quella che lui continua a chiamare casa, ma che sembra una prigione.

Anche questa notte i coloni non li hanno lasciati stare.
Hanno lanciato alcuni secchi di acqua sui panni appena lavati, stesi attorno alla casa.
Succede giornalmente, la recinzione che li divide ha maglie molto larghe, mentre le mura sono basse.
Hanno chiamato l’esercito, qualche giorno prima.
Il cancello, che permette alla famiglia di Suleiman di uscire da quella prigione, non funziona.
Sembra che qualcosa blocchi il meccanismo di apertura, Suleiman ha provato per giorni, prima di fare quella chiamata.
“Verremo a controllare” gli è stato risposto, da un ragazzino di appena diciotto anni.
Da quando Suleiman ha conquistato il diritto di avere una chiave per aprire e chiudere quel cancello ogni volta che vuole, incidenti come questi succedono spesso.
Prima erano i soldati a decidere quando la famiglia poteva entrare.
Una volta Suleiman è rimasto chiuso fuori per una settimana, con due dei suoi figli e suo padre, mentre le donne erano al di là del cancello.
Suo padre si sentiva male, era gennaio e il freddo era pungente, ma lui non aveva voluto allontanarsi dal cancello: “potrebbero venire ad aprirlo in ogni momento” gli aveva risposto.
Suo padre è morto qualche anno fa, Suleiman è certo che le continue angherie abbiano pesato troppo su quell’uomo.
Da parte dei soldati, che non gli permettevano di entrare e uscire da casa propria.
Dai coloni, che lanciavano oggetti, liquidi, qualunque cosa, attraverso le grate della recinzione.
Capitava addirittura che sparassero, soprattutto quando Suleiman riceveva visite da parte di amici, famigliari, o internazionali che andavano a vedere questa prigione a cielo aperto.
Eppure Suleiman non se ne è ancora andato, rimane lì, come ogni mattina, a bere il proprio caffè.
Sua moglie esce e si lamenta dei vestiti bagnati: dovrà rilavarli un’altra volta.
Suleiman è lì che resiste.
Resiste ogni giorno.
Resiste ancora, dentro quella prigione.


Nel 2002 Israele ha iniziato la costruzione del Muro di separazione tra Israele e Cisgiordania.
L’area che si trova tra la Green Line e il Muro, che comprende poco più del 9% della West Bank, è chiamata Seam Zone.
La presenza del Muro ha limitato il movimento dei palestinesi della zona: una risoluzione del 2004 della Corte Internazionale di Giustizia ha dichiarato la violazione del diritto internazionale da parte di Israele, poiché richiede ai palestinesi l’uso di permessi e restringe l’accesso ad alcune zone al di là del Muro solo a determinate persone.
A Beit Ijza vive la famiglia Gharib, nella casa che appartiene alla sua famiglia.
Sebbene a pochi chilometri dal resto del villaggio, la casa si trova circondata dall’insediamento di Givat Hahdashas.
Nel 2007 all’ingresso è stato installato un cancello metallico, che fino al 2009 l’autorità israeliana decideva se e quando aprire.
Grazie a un ricorso alla Corte, dal 2009 la famiglia ha ottenuto il diritto di avere il gate sempre aperto.
In una situazione simile c’è la cittadina di Qatanna, che si trova nell’area dichiarata Seam Zone, dove vive una famiglia, che dal 2009, ha dovuto richiedere un permesso per vivere nella propria casa, ormai inglobata nel territorio di Israele.
Dal 2010 è stato inserito un sistema di controllo elettronico per cui la famiglia deve chiamare l’autorità israeliana del checkpoint Qalandiya, per essere identificata tramite l’uso di telecamere e poter così superare il controllo.
Spesso il sistema di apertura non funziona, o i soldati non identificano prontamente i membri della famiglia, costringendoli ad aspettare per ore al di là del gate.