Come parte della loro famiglia

Dopo quasi due mesi in Palestina, per la prima volta ho sentito il bisogno di riposo.
Ero partita dall’Italia con l’idea che questa fosse solo un’esperienza come le altre, qualche mese della mia vita tra le sperdute colline della Palestina a condividere spazi con persone mai viste, e ora mi trovo qui, e tutti quei nomi che conoscevo solo per sentito dire diventano volti e persone reali, e non condivido solo lo spazio, ma ben altro con loro, qualcosa che non so ancora spiegarmi.
Eppure, pensandoci bene, so che un pezzo di cuore rimarrà qui in Palestina per sempre: come può non succederti questo quando persone sconosciute ti aprono la porta e ti trattano come parte della loro famiglia anche se non conoscono il tuo nome; quando vedi ragazzi della tua età con un peso sulle spalle che non dovrebbero mai sopportare, parlarti di loro e dei loro piani per il futuro e ridere, anche dopo che alcuni coloni hanno spezzato alberi di ulivo sulla loro terra, accendendo un fuoco e bevendo tè tutti insieme lì, tra una colonia ed un avamposto, per ribadire la loro scelta di nonviolenza in questo mondo in cui tutto è basato su un gioco di forza tra le parti in causa.

Eppure a volte mi sento sola.
Perché è difficile conoscere queste persone, perché senti sempre quella lontananza da loro che a volte sembra insopportabile, ma che ti fa apprezzare ogni momento condiviso, ogni sorriso ed ogni sguardo.
E più li conosci e più vorresti conoscerli, e più parli con loro e più vorresti rimanere lì, seduta nelle loro case, attorno ad una stufa, anche nel più lungo silenzio, che qui è prezioso, anche se non comprendi ciò che ti dicono, ma che basta un sorriso e sai che tutto è giusto, che sei nel posto giusto.
Ed ecco che ritornano le proprie insicurezze, perché qualunque cosa tu abbia dentro qui esce, prepotente ed amplificata, e non puoi mascherare chi sei, né a te stesso né ai palestinesi, che ti conoscono da pochi minuti ma già hanno compreso di te più di quello che tu stesso hai mai capito.
Eppure, anche se la stanchezza, la paura, le proprie insicurezze qui sono amplificate, non passa giorno che senta cosa abbia significato per me venire qui, e mi sia mai pentita di tutti i sacrifici e i problemi lasciati in Italia dalla mia scelta.
E mi accorgo che passare dai miei due mesi di permanenza ai tre attuali, sia stata non solo la scelta più giusta, ma l’unica possibile, perché qui ci lasci il cuore, le lacrime e il sudore, ma ricevi indietro qualcosa che ancora non mi spiego, a cui non so dare un nome, ma che è sempre qui, affianco a me, nonostante tutto.
E mi piacerebbe stare qui, seduta nel salotto di casa di un qualunque palestinese a parlare di tutto ciò, che a volte la mia timidezza rende impossibile da esprimere a voce, ma l’occupazione chiama, ed un altro albero viene distrutto qui, a pochi passi da casa, in una fredda notte di gennaio.
Ed ecco, un altro tè tutti assieme attorno a questo ulivo distrutto, a ridere e a scherzare.
Ed è sorprendente come tu provi rabbia e dolore, e loro sorridano e ti dicano che tutto andrà bene, e che per ogni albero distrutto ne pianteranno altri venti al suo posto.
 E poi dicono che veniamo qui ad aiutare queste persone, ad aiutarli a combattere l’occupazione, come se fossero loro a dover essere aiutati e non tu, che arrivi qua con mille certezze e queste vengono distrutte giorno dopo giorno, tramutandosi in qualcosa di diverso, che non ti spieghi ma che fa sorridere anche te, attorno a questo albero spezzato.
Ed è così che ti accorgi che la Palestina è un po’ anche casa tua, come di tutti coloro che cercano qualcosa e credono di averla trovata, ma arrivano qui e scoprono ben altro, scoprono se stessi, ed a volte preferirebbero non averlo fatto, perché è difficile trovarsi senza barriere, senza protezione. Eppure continui a sorridere un po’ anche tu, giorno dopo giorno, accorgendoti che vorresti sempre di più, ma che il tempo è tiranno, e il tuo “visto di ingresso” a breve scadrà, e il Ben Gurion (aeroporto) è lì, pronto ad infrangere ogni tua speranza, ed impari ad apprezzare ogni giorno, ogni attimo, come se fosse l’ultimo.
E sebbene nel cuore speri che non lo sia, perché quella breve esperienza di vita la vorresti trasformare in qualcosa di ben più importante, lo accetti, perché anche questo ti insegnano i palestinesi: accettare ciò che è successo, ed andare avanti.
Alla fine, un bicchiere di tè cura ogni ferita.
Ecco, è questo che un giorno vorrei poter spiegare a chi mi chiede cosa voglia dire vivere in Palestina per tre mesi, e che mi chiede perché io sia venuta qui ad aiutare queste persone.
Che ora hanno un nome, un volto ed una risata sempre diversa.
Che non hanno bisogno di nessun aiuto.
Che vedono volti diversi ogni mese, ogni anno della loro vita, ma che continuano ad aprirti il loro cuore incondizionatamente.
E lo vorrei dire anche a loro, a questi palestinesi che ora sono qui, attorno a questo fuoco a bere tè e a parlare di alberi nuovi da piantare, perché ogni albero è speranza e vita.
E non sia mai che, prima della mia partenza, ci riesca davvero.

L.