Il fuoco e lo zucchero

Italia

Ci chiediamo spesso come conciliare le nostre azioni nonviolente in terre straniere con quelle che sono parti della nostra storia personale, intensa come storia nazionale. La nostra cultura profonda, la nostra anima intima. La lotta di liberazione dal nazifascismo fu il momento più intenso dell’ultimo secolo di storia contemporanea, alcuni la definiscono guerra civile, altri guerra patriottica.

In ogni soluzione rimane sempre una guerra e per la nostra esperienza nessuno esce sano da quest’epilogo.
Ancora oggi in Italia durante i dibattitti ci dividiamo tra fascisti e comunisti. Quello che vorrei evitare è di cadere nei luoghi comuni, nei dibattiti classici sull’argomento. Vorrei parlare di qualcosa di tangibile.
La seconda guerra mondiale ha tirato fuori il meglio e il peggio della nostra umanità, la mia relazione con questi eventi storici è sempre stata una strada ad una corsia sola, una fede sicura e sincera. Una traccia del sentiero percorso che avrebbe dovuto spronare gli adolescenti contemporanei a mettersi in gioco contro i vari ventenni del  loro tempo. Gli anni della Resistenza fanno parte del nostro bagaglio di emozioni, sentimenti cresciuti in famiglia, durante le cene e i pranzi festivi, nei discorsi che i genitori e gli adulti portavano avanti mentre la neve cadeva fragile fuori dalla finestra. Un passato che ritornava spesso a bussare alla nostra porta, con il suo carico di racconti e di onore.
Negli ultimi due anni mi sono spesso domandato come tutto questo si concilia con il tentativo di orientarsi verso la scelta nonviolenta, verso la catena delle vendette e del rancore che si spezza di fronte alla potenza della scelta. Parlare di tutto ciò significa in parte mettere in discussione parte dei riferimenti politici e culturali in cui sono cresciuto, ma forse non è necessariamente un male. Accettare la non esistenza di un blocco granitico di risposte, capaci di dare un senso alla storia umana contemporanea può essere il primo passo verso una comprensione profonda di quegli anni.
Domenico Quirico inviato de la Stampa in Siria cui da cento giorni si è perso ogni contatto ha scritto: “Questo modo di fare il mestiere mi ha messo di fronte all’eterno problema del male. No, in realtà il male non è un problema: è un mistero. E questo lavoro è calarsi nel mistero del male.” Non è possibile per nessuno di noi avere una piena consapevolezza di ciò che è successo durante la seconda guerra mondiale, perché nessuno di noi l’ha mai vissuta sulla propria pelle. Quello che noi possiamo fare però, è ricercare in quel tragico quarto di secolo una scintilla, un barlume di verità, di umanità che si ricongiunge a pieno con ciò in cui crediamo oggi.
Quando scavo in questo passato, quando mi calo in questo male una delle prime figure che mi tornano in mente è quella di mia nonna, la quale ha vissuto i bombardamenti su Torino, nel crudele biennio 1943-1945 che spesso ripete: “Erano anni bui, anni indescrivibili, terribili. Ciò che mi porto dietro è l’idea che nella vita non bisogna mai smettere di lottare e di avere speranza. Le bombe cadevano facendo un gran rumore e si portavano dietro palazzi e fabbriche, cadevano e uccidevano. Noi eravamo nascosti negli scantinati, nei rifugi, sotto i ponti, e aspettavamo, pregavamo che quella sera non toccasse a noi.”
Non riesco a creare un collegamento, un paragone storico fra i conflitti moderni e quelli della prima e della seconda guerra mondiale, ma quello che desidero fare è tessere un filo emozionale, umano, una corda che ripercorra i battiti del cuore della gente, delle vittime delle guerre. Una perla che mi porto dietro è che se si guarda con gli occhi giusti si riescono a rintracciare in ogni epoca le stesse paure e le stesse speranze, che testimoniano la voglia di pace della gente comune. La voglia di porre una fine alle sofferenze, e una continua ricerca di amore.
Tra la sera del 29 Aprile ed il mattino successivo del 30 Aprile 1945 a Grugliasco, in provincia di Torino, 68 persone – Partigiani, civili (tra i quali il Segretario comunale e il custode del Municipio di Grugliasco) ed anche un sacerdote – furono crudelmente seviziate e passate per le armi dai soldati di una colonna tedesca in ritirata proveniente dalla Liguria, che nel suo tragitto aveva già seminato terrore e morte. Dei Caduti, 20 erano residenti di Grugliasco, 32 erano residenti del confinante comune di Collegno, i restanti 15 erano Partigiani provenienti da altri comuni. Molti di essi erano giovanissimi di 14, 15, 16, 17 anni, altri più grandi. Fu una tragedia per queste due piccole comunità, ognuno aveva un morto, tra gli amici o tra i familiari. Un dolore che ancora oggi segna la mia città e alcuni conoscenti.
La vendetta che ne seguì il giorno successivo non ha un preciso colore politico, è l’effetto della rabbia della popolazione: “Pensi sessantotto morti, chi non ha avuto un cugino, un fratello o un amico morto? Tutti avevano qualcuno morto in paese”. Sul terreno rimasero infine 29 corpi di militi della RSI, tutti soldati sbandati appartenenti alla divisione Littorio, che nei giorni della Liberazione avevano deciso di staccarsi dai reparti tedeschi ed erano disarmati. Vennero catturati e portati in un edificio a Collegno, tutti ragazzi dai venti ai trent’anni, dove sono rimasti fino al momento della fucilazione. Questa una testimonianza raccolta: “Quando sono stati catturati non rappresentavano un problema particolare, c’era l’euforia per la riconquistata libertà, ci si dimentica addirittura di loro”. Dopo la strage nazista tutto cambia, dopo il sangue innocente di sessantotto giovani, parte il circolo della rappresaglia e li si va a recuperare dalla prigionia.
Il gomitolo di lana inizia a rotolare e nessuno è più in grado di fermarlo.
Qualcuno aveva presumibilmente avvertito le vittime della strage di Grugliasco e ci fu chi assistette all’esecuzione, ma certo non tutti vollero parteciparvi. Qui una testimonianza di un conoscente di uno dei parenti delle vittime: “Ecco lui era andato giù là e volevano farlo…che sparasse anche lui che aveva perso un fratello. E lui si è messo a piangere, ha detto: “Io non ho mai..”. Me l’ha raccontato poi lui. Volevano che ammazzasse… “Ma io non avevo mai visto un fucile in vita mia, volevano che ammazzassi anch’io. E allora lui dice: “Mi son messo a piangere. Non ho preso il fucile, non volevo sparare” e qualcuno gli ha risposto: “Prendi il fucile và e spara.., perché insomma, anche tu perché ti hanno ammazzato il fratello”. E lui invece non ha avuto il coraggio neanche di sparare. Questo per dire che era tutta gente che… violenza crea violenza…”
Da quel momento spentosi il furore che aveva fatto precipitare gli eventi in quel modo rimase un certo sgomento e una coltre si silenzio rivestito di lacrime.
Dimenticare non è pietà.
Oggi sul monumento che commemora le vittime partigiane è inciso: “La pace non è assenza di belligeranza, è una virtù, uno stato d’animo.”
Si deve vivere sulla pelle per giudicare, e io non ho mai osato esprimere un giudizio perché non sono mai stato perseguitato, non ho perso nessun familiare in guerra. Ciò che tento di fare tuttavia è calarmi nel dolore sincero dei testimoni, ascoltarli, comprenderli, farne miei gli insegnamenti. Lavorare perché: “Questo non doveva più esserci”.
Credo nella nonviolenza come unica forza delicata in grado di calarsi nel mistero del male e della sofferenza, nella voglia di riscatto di una popolazione oppressa e delle strade che essa sceglie per inseguire la luce al di fuori del tunnel.
Quest’anno al Colle del Lys, fuori Torino, in Valle di Susa, ci sono stati tre giorni di commemorazioni per altri giovani uccisi dai nazifascisti. Una commemorazione che si celebra ogni estate i primi giorni di Luglio, quelli dell’eccidio. Da dieci anni tuttavia un gruppo di amministratori locali e di volontari ha creato un modo nuovo, creativo di ricordare la storia: ha creato Eurolys, un raduno europeo di giovani provenienti da diversi paesi del continente, ragazzi che se fossero nati durante la guerra si sarebbero combattuti. Quest’anno ho partecipato a questa iniziativa con Nicola: per dare una testimonianza della Colomba, per esserci, per abitare il conflitto, anche se passato e lontano. Ho vissuto negli stessi luoghi che hanno visto combattimenti, orrore e morte sui fronti contrapposti, insieme a studenti poco più giovani di me: spagnoli, inglesi, francesi, croati, rumeni, tedeschi. Insieme si è riflettuto sul conflitto, sulla guerra, sulle guerre. Sono stati dipinti cartelli colorati in varie lingue, compreso il tedesco, che sono poi stati posti vicino alle lapidi.
Ho vissuto l’empatia, mi sono reso conto del tesoro e della responsabilità che lega le generazioni che sono cresciute in stati dove non è presente lo scontro armato, bellico. Abbiamo un dovere, che è quello di andare oltre, e trovare forme alternative al darsi la morte.
Nel cuore mi rimangono le parole di uno dei partigiani che al termine della tre giorni ha testimoniato sul palco degli interventi pubblici: “ Eravamo mossi dalla voglia di avere giustizia e libertà, spesso ci ripetevamo tra di noi che chi avrebbe avuto la possibilità di sopravvivere a quella guerra avrebbe dovuto lavorare incessantemente per costruire una pace giusta e duratura. Questa lotta di resistenza divideva intere famiglie. Ricordo una volta che mio padre mi prese da parte e mi disse: “Tuo cugino… si è arruolato dall’altra parte… bè se lo incontri là fuori… sai quello che devi fare…”.
Queste ultime parole sono state scosse da un moto di singhiozzi, lacrime sincere sono sgorgate dall’anziano ex-combattente. Queste lacrime mi porto con me, viva testimonianza di una ricerca e di un cammino. Di fronte a coriandoli e distrazioni varie, di fronte alle cosiddette “missioni di pace” contemporanee, di fronte alle ingiustizie del nostro tempo, io conservo quelle lacrime.

 

Con mille altre domande
giungerò là
dove la vita si spegne…
semplice, chiara nota,
nel silenzio.
(Dag Hammarskjold)


Ale