Qualcosa dentro che è difficile da dimenticare

Italia

Non pensavo che un’esperienza di una settimana potesse avere un impatto così forte su di me.
Sugli sbarchi a dir la verità non ne sapevo molto, solo quello che si sente alla televisione... sono morte tot persone, sono arrivate sulle nostre coste tot immigrati, tot sono stati mandati nei CIE, tot sono stati espulsi, tot sono affogati al largo delle nostre coste... notizie che parlano di numeri e di cifre, magari con i commenti di qualche autorità o qualche personalità politica che dice la sua su leggi, cifre e statistiche.

Poco o nulla si sente sulla vita e sull’esperienza vissuta di queste persone che sono arrivate tra mille stenti sulle nostre coste o di quelli che non ce l’hanno fatta, e poco ne sapevo di quello che succede loro una volta che sono arrivati in Italia.
Il mattino dopo il mio arrivo noi volontari siamo andati al centro di prima accoglienza e ho avuto così modo di conoscere la realtà di queste persone, una volta sbarcati e arrivati sul nostro suolo. Dormono e vivono in una palestra, su delle brandine, aspettando notizie sul loro destino da parte di qualche autorità, vivendo tra un pasto e l’altro in questo centro di prima accoglienza nell’ansia di capire cosa devono fare per “essere a posto” e poter iniziare una nuova vita.
Quello che mi ha colpito maggiormente è stato il fatto che la maggior parte di queste persone ignorasse dove fosse e cosa ne sarebbe stato di loro.
Una delle due domande più frequenti che ci facevano, difatti, era cosa dovevano fare per avere i documenti necessari per circolare, vivere e lavorare in Italia o in Europa. Nell’italiano corrente le parole “immigrato” “clandestino” hanno una connotazione ormai negativa, che designano persone che rubano il lavoro, che vivono al di fuori della legge, che fanno tutto quello che vogliono e che delinquono. Come se non avere documenti o il non essere in regola sia una loro libera scelta, fatta per poter vivere al di fuori della legge e impunemente.
Invece la principale preoccupazione era proprio sapere cosa dovevano fare per avere i permessi per poter uscire dal centro e poter circolare, lavorare e vivere liberamente in Italia. O in Europa.
L’altra grande e frequente domanda era “cosa ne sarà di me?”. E’ stata la prima cosa che mi hanno chiesto appena messo il piede per la prima volta nel centro, “cosa ne sarà di me?”.
Alcuni hanno parenti, amici o conoscenti in Italia o in qualche Stato europeo, e quindi chiedevano quanto costassero i mezzi per raggiungere tale città o tale Stato, ma molti altri non avevano nessuno e quindi non avevano idea di dove andare, sapevano solo che volevano cercare una casa e un lavoro, ovunque ci fosse posto e spazio.
Una settimana passata a dare lezioni di italiano, di geografia, a parlare e a ricordare Paesi lontani, cucine e costumi diversi, e anche a descrivere l’Italia. Giorni intensi per il condividere la loro vita e la loro sofferenza, il passato che hanno lasciato e il futuro che si prospetta incerto ma anche pieno di prospettive.
Ma sono stati anche dei giorni difficili, sia perché era frustrante non poter dare loro le risposte di cui avevano bisogno, sia perché era difficile vedere 200 persone di etnie e culture diverse stipate in una palestra per settimane, quando il loro unico desiderio era mettersi subito all’opera per trovare una casa, un lavoro, o per raggiungere parenti e amici.
Dello sbarco la prima cosa che mi ricordo è un bambino siriano che in braccio al padre saluta tutto contento le persone sul molo. Non so cosa stesse pensando o immaginando quel bambino mentre ci salutava tutto sorridente, come non so cosa abbiano pensato le 1030 persone che sono sbarcate quel giorno. Non so cosa abbiano pensato quando ci hanno visti tutti coperti e disinfettati, dare loro acqua e scarpe, prendere foto, fare domande, dare loro i numeri identificativi, dividerli, contarli, visitarli alla belle e meglio sotto il sole. Anche perché queste persone sul molo erano insaccate in una tuta, avevano le mascherine sul volto e i guanti bianchi alle mani, tanto da non sembrare neanche più delle persone ma degli alieni.
Dai loro volti, mentre scendevano dalla nave però, si vedeva che molti erano stremati, altri contenti di essere arrivati e di essere finalmente sulla terra ferma, molti altri erano spaesati, confusi o impauriti.
Appartenevano a etnie e a Paesi diversi, avevano storie diverse alle spalle e sogni diversi, avevano anche età differenti, ma quel giorno erano tutti lì insieme, appena sbarcati, che aspettavano di sapere quale sarebbe stato il loro destino.
Nonostante lo sbarco sia durato tutta la mattinata e anche nel primo pomeriggio, non mi sono resa conto delle ore che passavano. Dal momento in cui la nave è arrivata al porto e il bambino salutava in braccio al suo papà, al momento in cui me ne sono andata via, il tempo è scivolato via tante erano le emozioni che ho provato e le cose da fare.
Dalla pelle d’oca alla vista dell’arrivo della nave alla voglia di fare qualcosa per dare un po’ di sollievo, anche un solo sorriso, sono arrivata alla fine della mattina stremata. Ma con il desiderio di poter parlare con queste persone di loro e della loro vita, perché niente come uno sbarco ti fa capire che non sono cifre, un tot di persone che sono arrivate sulle nostre coste, ma che sono persone scappate da guerre e persecuzioni, ma anche dalla povertà e dalle malattie, che vogliono rifarsi una vita.
Parlare con loro e condividere con loro questi momenti così difficili, ti lascia qualcosa dentro che è difficile da dimenticare.
Un qualcosa che ti vorrebbe far tornare giù a Reggio Calabria e poter condividere di nuovo questi momenti con loro.

 

Maria