La Pelle

Italia

Quando la pelle del volto racconta storie e le diverse lingue non sono una forza che ostacola ma una spinta a comprendere.

La terra che per così poco ho vissuto è la porta che si può aprire su un mondo diverso.

Quando persone, che decidono da mesi di trasformare in realtà giornaliera l'esigenza di essere umanità in un mondo disumano, si trovano guardandosi, a sorridere del loro essere esausti, danno un forte colpo di vento alla nube che avvolge la nostra realtà soffocandone le menti che la compongono. Ho conosciuto storie spazzando la pelle bruciata che si stacca da corpi nudi, ho vissuto quella pelle come pagine di un libro troppo dolorose per restare legate con le altre all'interno di un racconto e allora strappate e gettate a terra. Spesso mi sembra di risentirla quella pelle, la sentivo infilarsi tra piedi e sandali mentre la spazzavo dal pavimento. È come se non fossi in grado di lavarla via, di toglierla. Spesso ho come la sensazione che quella pelle si sia mescolata alla mia in un tentativo di rendermi parte della storia che chi l'ha persa non vuole ricordare, come lo scrittore che getta le sue pagine.
Mi è rimasto nelle orecchie il vuoto del loro silenzio, vorrei riuscire a dare parole ai lamenti che non ci sono stati, che non si sono sentiti, non alla dignità dei loro volti, quella è già scritta nelle rughe delle loro espressioni.
Ma non ne sono capace, non riesco a rendere né dell'umido nei miei occhi davanti alla pelle che ricresce pronta ad accogliere storie di speranza né della rabbia di una notte passata nell'incertezza della decisione sull'accoglienza da parte dei medici di un ospedale.

Ho letto storie che non si lasciano scrivere sui libri, la storia del nostro tempo si legge sui visi di chi si trova a doverci fare i conti, allora penso di essere fortunato, penso di aver letto molto in questi pochi giorni, molto di più di quanto posso aver letto sulla carta.
La vita, la storia, il tempo, vengono scritte e scandite su chi dà per necessità più che per scelta, la propria pelle per questo.
Così nascono storie di realtà che raccontano di avventure per mare e prima che per mare per terra, raccontano di sole pesante e caldo come massi roventi, di acqua come vita e morte nello stesso tempo, di pioggia che sembra scalfisca mani, schiene e membra come solo in milioni di anni riuscirebbe a fare con la pietra.

Ho letto di amore e di fede a volte anche senza un preciso dio a cui rivolgerla, di coraggio nell'avere una fede e una speranza nell'uomo che ha abbandonato me da tempo. Brucia ancora l'anima e il corpo dal momento in cui mi sono accorto di questo, brucia come dopo uno sguardo amareggiato di chi ti guarda con gli occhi lucidi per aver ricevuto una delusione. Ci vorrà tempo prima di riuscire a comprendere l'insegnamento di questo sguardo ma sono sicuro che, nel tempo, lo troverò.

Ho letto sulla fronte corrugata di un essere al mondo da dieci mesi, storie che mi raccontano di come può arrivare ad essere insopportabile il bruciare di una pancia vuota, di come sia impensabile non poter più tornare nel posto in cui si hanno radici, in cui si è stati concepiti, di come non si possa mai dimenticare del volto della madre che seduta sull'estrema punta di un gommone scruta le onde, ben conscia del fatto che se si ritrovasse in mare, dovrebbe scegliere se salvare lui o il bambino che porta in grembo.

Ho letto sul volto di Suliman un ragazzo appena diciannovenne, una storia fatta di fughe, di prigione, di sfruttamento e ancora di fughe.
Ho letto la capacità di sopportare tutto questo per riuscire nel suo intento: andare a scuola, lusso che mai ha potuto concedersi. Ho provato con tutto me stesso a trovare il coraggio di dire a Suliman che se avesse richiesto di essere accettato come rifugiato, il mio Paese l'avrebbe respinto non considerando il Gambia una nazione da cui poter scappare.
Non l'ho trovato.
Non provo neppure a raccontare scrivendo la rabbia che provo nel pensare alla sua come alle molte altre situazioni simili, alle lacrime che non possono far a meno di affiorare ricordando le ultime parole che ha rivolto a me e ad E. il giorno in cui siamo partiti.
now I'm really alone.
La sua storia non verrà ascoltata da nessuno, il suo volto non osservato, la sua richiesta di poter andare a scuola non accolta, rimarrà un numero nella fila dei numeri respinti.

Ho letto storie che posso descrivere ma che non posso riportare su un foglio, la vita non lo permette, rimane impressa sui corpi.

1373+1.
Questo è il modo in cui è stato indicato il numero di persone arrivate il 24 agosto al porto di Reggio Calabria.
Abel è un ragazzo eritreo, la sua pelle non potrà raccontare la sua storia. Dovrà affidarsi a quella dei suoi compagni.
Io lo ricorderò mentre uso il mio corpo come scudo tentando di difenderlo dall'occhio di chi filmando, voleva avere la presunzione di poter raccontare di lui senza aver letto la sua storia.
Un numero da immortalare.
1373+1.
Ricorderò il rumore che fa un uomo avvolto in un sacco nero mentre viene posato all'interno di una bara di metallo.
Ricorderò le lacrime che riempono gli occhi di E. a fianco a me che respira e si lascia rompere il fiato dall'odore che il corpo senza vita emana.
Ricorderò il nome, il volto non posso ricordarlo.
Ricorderò 1373+1, per non accettare mai l'idea che un numero possa sostituire la storia di una vita.

Mentre mi trovo a scrivere di uomini, sono passati ormai più di dieci giorni dal mio rientro.
Vorrei riuscire a non dimenticare mai i volti e le storie che uomini e donne hanno lasciato che conoscessi.

Ricordare chi ha camminato con me in questo tratto di strada

Ricordare di come, il giorno in cui leggendo la stampa sulla maglietta che indossavo sotto la pettorina da volontario, ho pensato che la scritta Restiamo umani avrebbe dovuto essere cambiata in “Riscopriamo cos'è essere umani”.

Voglio ricordare l'idea che chi arriva da lontano, solcando il mediterraneo come fosse un piccolo lembo di terra, trovi l'accoglienza che uomini e donne hanno rivolto a me, anche solo per il tempo di tirare il fiato.

Non temendo la paura di riconoscersi nell'altro.

F.P.