ACQUA. DALL'UGANDA ALLA PALESTINA

ACQUA. DALL'UGANDA ALLA PALESTINA

Nord Uganda
In questa terra rossa, terra spaccata dal sole e dalle improvvise piogge, in questa terra martoriata da più 20 anni di guerra tra i ribelli dell'Lra e l'esercito regolare ugandese, alcuni volontari di Operazione Colomba hanno scelto di condividere parte della loro vita.

Qui spesso appare difficile poter costruire ponti e speranze a causa di tutto l'orrore subito e dove ancora tante sono ancora le ferite da lenire.

Condividere in questa terra significa vedere quotidianamente situazioni di abbandono soprattutto nei confronti di bambini e anziani, vittime non solo della guerra ma anche della disumana condizione di vita nei campi profughi, in cui da anni circa 1.800.000 Acholi sono costretti a rifugiarsi e vivere. Prima che iniziassero le trattative di pace a Juba ( Sud Sudan) lo scorso anno, la gente si alzava all’alba, racimolava qualche fagiolo avanzato o qualche tubero lessato, e solo dopo il controllo della pattuglia nell’area, a mattina ormai inoltrata, poteva raggiungere, spesso a km di distanza, il piccolo pezzo di terra da coltivare, per poi rientrare nel primo pomeriggio per ragioni di sicurezza. Niente di straordinario nemmeno nel sapere che quei km erano fatti con il bimbo legato dietro alla schiena, la tanica dell’acqua appoggiata sulla testa, la zappa sotto il braccio…e la paura nel cuore.

Quella piccola tanica d’acqua, per chi riusciva a trasportarla, rappresentava l’unico risorsa della giornata. Nelle terre in cui si recavano a zappare infatti i pozzi erano assenti o non funzionanti. Spesso lavoravano e camminavano per ore e la sete veniva spenta solo al rientro al campo all’imbrunire. Non prima però di avere fatto anche due ore di fila per poter riempire le 4 taniche consentite quotidianamente a famiglia (composta anche da più di 8 persone, quantità quindi inferiore al fabbisogno giornaliero), in uno dei pochi pozzi presenti nel campo profughi.

L’acqua è vita, è attesa, è speranza di raccolta quando arriva copiosa ed abbondante dal cielo, ma è sconfitta quando la sua accessibilità si imbriglia nelle maglie della lenta e non sempre oculata macchina degli interventi umanitari.

Ai nostri occhi infatti è apparso doloroso seguire il lento movimento di quelle taniche ad essere riempite di un diritto, l’acqua. E ci è parso ancora più doloroso sapendo che il rendere l’acqua un bene facilmente accessibile e disponibile non fosse certo una questione di finanziamenti mancanti,

ma di una non sempre chiara disponibilità, di tutte le parti coinvolte nella gestione degli aiuti, a leggere realmente le necessità della gente e a saper rispondere con tempi e mezzi adeguati. Il campo di Minakulu, dove vivono i volontari, contava circa 5000 persone, con la presenza per lungo tempo di solo due pozzi , mentre altri tre ( di cui uno nei pressi del dispensario) furono in seguito costruiti da privati o grazie a “legittime” pressioni di qualche sacerdote locale a delle Ong preposte. C’è da chiedersi quanto questa deficienza organizzativa abbia creato e crei solo dipendenza e sussistenza nei campi sfollati e nessuna prospettiva di sviluppo o reale coinvolgimento nella ritessitura del difficile contesto sociale del post-conflitto.

A rinforzare tali osservazioni, si aggiungono le evidenti incongruenze di questi ultimi mesi, da quando cioè la gente sta rientrando nei villaggi d'origine, processo in atto grazie al proseguimento delle trattative di pace, e che vede il graduale abbandono dei campi profughi.

Rientrare nel proprio villaggio o in piccoli campi significa riprendere in mano la propria vita, la ricostruzione della casa, fatta di fango ed acqua, la coltivazione dei campi per poter sfamare la famiglia. Così accanto alla difficoltà che Ong's e governo ugandese possano in tempi brevi intervenire nella ricostruzione o riattivazione dei servizi di base socio-sanitari ed educativi, e che ciò dipenda molto dal “numero di utenti” che si spostano, le decine di famiglie che rientrano spontaneamente attingono l’acqua malsana dalle paludi, o la trasportano anche per km dopo averla raccolta nel pozzo più vicino. In alcune aree di rientro i pozzi sono presenti ma usurati dal tempo. Con una cifra tra i 150 – 200 euro è possibile normalmente provvedere alla loro riparazione ( cosa che i volontari di Operazione Colomba fanno con l’aiuto di un meccanico locale), ma concretamente quasi nessuna organizzazione esegue tali riparazioni preferendo la costruzione ex-novo dei pozzi, con un costo che si aggira intorno ai 12.000 euro cadauno.

Ma lo sconcerto si fa più forte quando nei numerosi campi profughi si vedono installare ora nuove cisterne d’acqua, che la erogano ad orari stabiliti e da luccicanti rubinetti. Spesso tali tanks sono alimentati da motori diesel o pannelli solari , che al primo guasto rimangono pietosamente chiusi.

Alla nostra domanda sul perché di questa scelta di fornire l’acqua nei campi che si stanno svuotando e lasciare sprovvisti decine di siti di rientro della popolazione, le risposte sono state univoche e riguardano la necessità di portare a termine i progetti e l’utilizzo dei budgets in programma l’anno precedente senza tener conto dei reali e contingenti cambiamenti che in questi mesi hanno mutato lo scenario del Nord Uganda.

Nel concreto, la possibilità di garantire la funzionalità dei pozzi già esistenti o la costruzione di pozzi dove veramente ora é necessario, potrebbe rappresentare una risposta di qualità all'esigenza primaria della gente di poter tornare a casa perché questa “sete” non può più attendere.


Palestina

Quando l’acqua non è più un diritto

I volontari di Operazione Colomba sono presenti nel villaggio palestinese di At-Tuwani, a sud di Hebron, in un'area indicata come South Hebron Hills, una tra le più povere situata al limite meridionale della Cisgiordania. I volontari vivono la condivisione diretta con la gente e cercano di dare sostegno alle famiglie palestinesi in difficoltà, riducendo la violenza tramite l'accompagnamento delle persone, l'interposizione nonviolenta ed il monitoraggio della situazione dal punto di vista del rispetto dei diritti umani. Nell'ambito delle attività che si svolgono, sono regolari le collaborazioni con diverse associazioni israeliane per i diritti umani.

I volontari vivono nel villaggio di At-Tuwani e ricercano anche il dialogo con i coloni nazional-religiosi, favorendo una comunicazione che vada oltre gli schemi conflittuali che da anni si manifestano in quest’area. Da At-Tuwani i volontari si spostano per seguire i problemi dell’intera area registrando le violazioni dei diritti umani attraverso reports settimanali, che vengono spediti su richiesta all’Ufficio OCHA1 (UN) di Hebron e ad associazioni pacifiste e per i diritti umani sia palestinesi, che israeliane.

E' un paesaggio di colline e valli, abitato da una popolazione palestinese di circa 1.100 agricoltori e pastori. I piccoli centri abitati, detti Khirbet, sono sparsi nell’area e spesso raggiungibili solo a piedi, a dorso di asino o con mezzi fuoristrada. Il villaggio di At-Tuwani, funge da riferimento per i piccoli centri abitati dell'area: qui sono presenti una scuola, una clinica medica e un piccolo negozio. Da secoli gli abitanti indigeni della zona, di cui molti vivono in grotte, si dedicano all’ agricoltura e pastorizia sviluppando un’economia di sussistenza. Solo alcuni abitanti della zona hanno un trattore, pochissimi una casa e quasi nessuno un lavoro che non sia la coltivazione della propria terra.

Ad At-Tuwani la popolazione vive in modestissime case di cemento, tutte con un ordine di demolizione da parte dell’Esercito Israeliano, (in quanto “ area C” sotto loro totale controllo) e dal quale le comunità dei villaggi dell'area hanno il divieto assoluto di costruire qualsiasi cosa di permanente compresi pozzi o cisterne per l'acqua. Così da decenni ad At-Tuwani l'acqua è un gravissimo problema. Il villaggio si sostiene con un pozzo e cinque piccole cisterne che raccolgono acqua piovana. Durante l'estate il livello dell'acqua del pozzo (alimentato da una fonte) si abbassa notevolmente e non c'è il ricambio d'acqua che si verifica nella stagione delle piogge; spesso accidentalmente cadono dei rifiuti ( frammenti di corda, bottiglie, sacchetti di plastica) sul fondo del pozzo ed è quasi impossibile rimuoverli a causa della mancanza di mezzi adeguati. Questi fattori rendono l'acqua sporca e non potabile e contribuiscono alla diffusione di malattie soprattutto nei bambini.

Quest'acqua viene razionata in modo molto rigoroso dalla fine della stagione piovosa (cioè dal mese di marzo) sino al suo prosciugamento dopo circa quattro o cinque mesi; poi il villaggio si rifornisce di acqua acquistandola e facendola trasportare con autobotti che riempiono le cisterne.

L'acqua costa 170 skl (cambio 5,4 skl/€) per 10m³ e dura in media 14 giorni per una famiglia, 2

considerando che poche famiglie hanno un reddito, tale spesa risulta onerosa, ma soprattutto ingiusta. La colonia ebraica situata a poche centinaia di metri dal villaggio, così come tutte quelle presenti nell’area, é dotata di un’enorme cisterna che garantisce la fornitura dell’acqua per uso personale nonché per le numerose attività di allevamento di cui gli abitanti stessi si occupano.

Il divieto per la popolazione palestinese sotto occupazione, di poter costruire qualsiasi struttura , previa richiesta agli organismi militari preposti, e sempre comunque negata, ( la stessa clinica ha l’ordine di demolizione), viola il diritto ineluttabile a poter usufruire dell’acqua che è bene di ogni essere umano. Per le stesse ragioni anche la corrente elettrica è assente nel villaggio, ma la linea passa a solo poche centinaia da esso, per poter erogare l’energia alle colonie limitrofe.

Diverse volte i coloni hanno reso la vita impossibile agli abitanti dell’area, inquinando le cisterne dell’acqua, avvelenando i campi con sostanze tossiche, distruggendo le grotte, impedendo i lavori agricoli come l’aratura dei campi, la raccolta di grano e lenticchie e la raccolta delle olive( tutta la documentazione e relative denunce a riguardo sono reperibili all’ Ufficio OCHA).

Al di là di ogni ideologia o politica, la vita di ogni persona dovrebbe essere considerata un valore inestimabile, uno spazio di creatività ed un diritto a sognare e lottare per il futuro sullo stesso piano e con le stesse possibilità di espressione in entrambe le parti in conflitto. Privare un popolo di beni che sono un diritto farà solo fare all’umanità tutta, giganteschi passi indietro.

1L'OCHA, Office for the Coordination of the Humanitarian Affairs, è un 'agenzia dell' ONU.

2 USAID ha garantito, a partire dallo scorso settembre, una fornitura di acqua fino all'arrivo dell'inverno, ma ad oggi nulla è stato fatto