Rabbia

 Rabbia, di quella nera e densa, che finisce per inondarti gli occhi senza scampo. Che nell'afa di un agosto vacanziero ti spinge a studiare da principio storia, geografia e geopolitica del Caucaso, a seguire compulsivamente ogni informazione e familiarizzare con i nomi di presidenti e città di cui fino all'altro ieri ignoravi l'esistenza, perché in questo momento più che mai provare a capire ti sembra un dovere.
Attorno, senza più senso, ci sono medaglie olimpiche per gli azzurri, la calda estate sulla riviera romagnola, notti di stelle cadenti e desideri.

Il pensiero corre al Kossovo, a quell’indipendenza che è stata forse la scintilla della guerra di questi giorni, il temuto effetto domino che si realizza. I proclami di Bush, Solana e Ban Ki Moon, secondo cui la questione kossovara non poteva diventare un precedente per altri casi simili, sapevano di farsa fin dall'inizio. Erano un tentativo goffo e sterile di minimizzare il significato di un evento che ha invece segnato una svolta nel diritto internazionale.

Il 17 febbraio 2008, mentre gli albanesi esultavano per la realizzazione del sogno dell’indipendenza e i serbi ribadivano la propria sovranità sul Kossovo, per Ossezia del Sud e Abkhazia passava alla storia un precedente fondamentale per le proprie rivendicazioni di secessione dalla Georgia, un evento a cui da allora tutti i popoli con ambizioni indipendentiste si richiamano, nonostante le assurde dichiarazioni ufficiali di unicità del caso del Kossovo e dell'improponibilità dell'indipendenza in situazioni analoghe. 

Le cifre si rincorrono in queste ore e dicono che le vittime civili degli attacchi georgiani sull’Ossezia del Sud e dei bombardamenti russi sulle città georgiane sono forse più di 2000, i profughi e gli sfollati 40000. La capitale de facto dell'Ossezia meridionale, Tskhinvali, sarebbe in gran parte rasa al suolo, mentre la risposta russa ha ridotto a cumuli di macerie la città georgiana di Poti e nel bombardamento delle basi militari di Gori ha colpito un quartiere residenziale, uccidendo 60 civili. Ma i numeri, come al solito, non rendono la dimensione del dramma che sta dietro ad  ogni storia, ad ogni persona uccisa, ad ogni famiglia devastata, ad ogni sogno interrotto. Credo che ogni volta che qualcosa del genere succede, il mondo intero dovrebbe fermarsi per provare a capire che cosa siamo diventati, se è davvero questa la direzione in cui vogliamo andare, se è questo il corso che abbiamo deciso che la storia prenda, se è questa la casa in cui vogliamo far nascere e crescere i nostri figli e i loro figli: un mondo in cui l'uccisione di ognuno di quegli esseri umani non viene considerata per ciò che dovrebbe essere, come qualcosa di inaccettabile e scandaloso, ma come il risultato ineluttabile dell'immutabile sistema di cui facciamo parte, in cui i drammi dell'umanità sono il prezzo da pagare in cambio di soldi e potere per i soliti pochissimi privilegiati. E intanto la maggioranza di noi, che pure abbiamo i mezzi per capire e la forza per provare a cambiare il corso delle cose, tace, o non urla a sufficienza.

Anche nel Caucaso le ragioni ultime del conflitto vanno molto al di là delle richieste d'indipendenza di un popolo e riguardano soprattutto gli interessi energetici, economici e strategici delle grandi potenze. Russia da una parte, Georgia (sostenuta dagli Stati Uniti) dall’altra e in mezzo, come sempre, come in ogni guerra, le vittime civili.

Annoto le dichiarazioni del presidente russo Medvedev: “Costringeremo la Georgia alla pace” e mi indigno, perché la parola pace è vittima di uno stupro sistematico da parte di politici e strateghi militari. Ogni volta che alla pace vengono associati carri armati, bombe, artiglieria, morte e distruzione, so che ci stanno mentendo e che dicono pace per mascherare altre motivazioni, di cui spesso a noi gente comune non è dato sapere.

Scorro le immagini di morte che arrivano dal Caucaso e il pensiero di nuovo va ai Balcani: zone del mondo diverse, stesse immagini di inumana e straziante sofferenza. Mi tornano alla mente le decine di racconti di guerra e dolore ascoltati, i volti straziati dal tormento di chi ha perso una persona cara,   l'angoscia che permea le giornate e le nottate di chi della persona uccisa non ha più ritrovato il cadavere, il pesante fardello che accompagnerà per tutta la vita chi la guerra l'ha vissuta da bambino, gli incubi diurni e notturni di chi non può dimenticare ciò che ha visto, la disperazione inconsolabile di chi ha il rimpianto di non essere riuscito ad impedire una tragedia, e poi il carico di odio che la sofferenza si porta dietro e che per anni, forse per generazioni, chiederà vendetta e non riesco a trovare scuse o spiegazioni valide, non riesco a trovare giustificazioni o mezze misure. La guerra fa schifo, sempre e comunque.

PS: il sito di Repubblica a cui si riferiscono le foto avverte che “alcune di queste immagini potrebbero urtare la vostra sensibilità”. Io credo che in questi casi sia giusto farci urtare la sensibilità, per aiutarci a capire cosa sia davvero la guerra, al di là dei tentativi retorici di renderla meno inaccettabile.


Elena, 10 agosto 2008