Penso alla Nonviolenza

Penso alla Nonviolenza

Penso alla nonviolenza, e faccio fatica a districarmi tra tante definizioni. Lotta? Suprema virtù del coraggioso? Uno stile di vita per il cambiamento sociale? Non so, sono tutte valide, credo.
Non mi ritengo nonviolenta, vi aspiro più che altro.
(...)

La violenza, i modelli culturali e sociali nei quali viviamo, sono talmente radicati in me. Il tentativo quotidiano di affermarsi, spesso legittimando la prevaricazione con una supposta idea di giustizia.
Tra tante parole nelle quali rischio di perdermi alla fine la nonviolenza è esercizio. Esercizio continuo di una concreta pratica d’amore. Provando, riprovando, quotidianamente. Insomma in una parola: vivendo.
E ho avuto la fortuna di incontri e persone che mi hanno permesso di sperimentare questa vita.
La nonviolenza oggi per me è una questione di volti, voci, odori… sofferenze di cui a volte ho rifiutato il peso, perché non ero in grado – non volevo? – portarlo.

E’ il volto di Nurit Peled, israeliana alla quale un kamikaze palestinese ha assassinato la figlia adolescente facendosi esplodere nel centro di Gerusalemme. Insieme a genitori israeliani e palestinesi ha fondato il Parent’s Circle, un’associazione che lotta per la pace in Palestina, chiedendo la fine all’occupazione israeliana. L’ultima volta che venne a trovarci, in Italia, visitando una centro diurno per disabili gravi, ci chiese di poter avere una icona di sua figlia Smadari. Ci diede la foto, il sorriso di una bella ragazzina quindicenne dagli occhi grandi. Fu l’unica volta che parlò di Smadari. Nonviolenza è perdonare chi ha assassinato tuo figlio. E’ continuare, anche dopo aver perdonato, a chiedere giustizia. Giustizia anche, e soprattutto per l’altro, quello che fin dalla nascita ti hanno insegnato è il tuo nemico.

E’ la polvere del campo profughi di Khan Younis, sud della Striscia di Gaza. Polvere e macerie, e odore speziato del caffè arabo. Il bimbo palestinese mi mostra la cicatrice di un proiettile sulla gamba. Gli dico che deve reagire, per il suo popolo, deve studiare, andare a scuola, crescere e credere che esista una via diversa dall’odio per l’ebreo. E lui mi guarda, mi chiede come fa ad andare a scuola se il check point è sempre chiuso. La mia nonviolenza da occidentale benestante – e anche un po’ colonialista, non trova risposta di fronte al suo sguardo amaro. La mia nonviolenza fatta di studio di parole di azione diretta di regole e strumenti… forse oggi non di delicatezza, del non di fare i conti con la realtà. Una realtà che ho avuto la fortuna di non subire sulla mia pelle.

Cos’è la nonviolenza? Ancora flashback, ricordi… la donna albanese che vive in una casa famiglia a Scutari, con le sue tre figlie. Ha ucciso il marito, il loro padre, 8 colpi dalla sua pistola di poliziotto. Era esasperata da anni di abusi ed abbrutimento, ha reagito, probabilmente nell’unico modo che conosceva. La voce di Simone, italiano, che vive lì da tanti anni, mi racconta che in Albania le donne a lungo hanno creduto che la condizione di inferiorità fosse propria, connaturata all’essere donna, finché l’arrivo aggressivo dell’occidente le ha messe di fronte alla loro schiavitù, senza dar loro gli strumenti per reagire senza altri abbrutimenti.

Poi ancora… bambini, i bambini malarici e sieropositivi di Korogocho, di Soweto, di Mathare, le decine di baraccopoli che cingono in una morsa i grattacieli ed i parchi verdi del centro di Nairobi. Quelli che mangiano dalla discarica spaghetti verdi, avanzi di cibo dei ricchi. Immagine di una violenza sfacciata. Mi tornano alla memoria le parole di Kapuscinski, in Ebano, “Quei ragazzi scalzi, affamati e analfabeti vantavano su di me una superiorità etica: la superiorità che una storia maledetta conferisce alle sue vittime. Loro, i neri, non avevano mai conquistato, occupato o reso schiavo nessuno. Potevano permettersi di guardarmi dall’alto in basso. Erano di razza nera, ma puliti. Mi facevano sentire disarmato, senza un solo argomento valido.”

Scavo dentro me, cerco risposte. Cos’è la nonviolenza? Dopo tanti anni ricordo ancora la frase di Daniele, dell’Operazione Colomba, nel delirio di Genova: “se non sei convinto è meglio andare a casa. Le botte fanno troppo male quando non sei convinto. Le botte si possono prendere solo se ci credi, allora riesci a sopportare il dolore.”

Cerco di trovare un senso, una direzione al cammino, una sintesi.

La nonviolenza è testimonianza, denuncia.
E’ condivisione. Se vedi non puoi far finta di nulla. Se vivi con l’altro non puoi non fartene carico. Solo condividendo la nonviolenza diventa una scelta obbligata. Senza alternative, unilaterale, totale, incondizionata.