Caro figlio...

Albania

Diario non molto immaginario di un padre sotto vendetta
Ogni giorno mi sveglio con il desiderio che tutto fili liscio e che la notte arrivi presto.
Poi, guardando i miei figli, penso alla vita che sto offrendo loro: un’esistenza priva di opportunità. Un presente immanente, senza futuro. Chissà cosa sogna mio figlio che si prepara a uscire dall’adolescenza. Se non conosce il mondo esterno come può desiderarlo e non temerlo? Io so come vanno le cose fuori dal recinto di casa mia: c’è tanta corruzione, individualismo e disorientamento.
Non vorrei trasmettere ai miei figli tutta la sfiducia che nutro in ciò che mi sta intorno. Devo cercare di renderli responsabili e partecipi della vita sociale e non di subirla.

Vorrei che mio figlio imparasse a essere un cittadino attivo, che lotta per i propri diritti e si fa carico dei doveri, un buon padre di famiglia che si assume le proprie responsabilità ed è attento alle esigenze dei figli. Un uomo giusto e gentile verso gli altri.

Ma come faccio a insegnarglielo? Questa non è una materia che si studia sui libri ma che si vive concretamente. Come faccio a infondergli fiducia verso il prossimo, che sta alla base del vivere insieme, se gli ordino di non andare a scuola perché potrebbe morire? Come faccio a insegnargli il valore dell’amicizia se gli proibisco di andare in città a una festa perché rischierebbe la pelle?
E io, da padre, come faccio a impedire a mio figlio di vivere una vita normale uguale a  tanti adolescenti proprio perché gli voglio bene?
Come fa, mio figlio, a capire che la sua vita è preziosa se proprio io, quello che l’ho messo al mondo, non gli do la possibilità di viverla?
Come gli spiego che un uomo FA degli errori ma non E’ il suo errore?
Ho ucciso un uomo più di vent’anni fa, ho scontato la mia pena ai lavori forzati che mi hanno distrutto la schiena. Per questo sbaglio non sono stato condannato solo io ma tutti i miei familiari.
La famiglia dell’uomo che ho ucciso vive a Scutari ed è vicina ai vertici della società: quelli che decidono, dall’alto dei loro agi, le sorti di noi comuni cittadini. Otto mesi fa mi hanno ferito mentre ero in città a cercare la legna per l’inverno.
Mio figlio minore soffre di bronchite ma non posso portarlo in ospedale perché lì ci lavora la sorella dell’uomo che ho ammazzato.
Lei non privilegia le sue capacità di guaritrice, di medico ma mette al primo posto il rancore e l’odio che ha nei miei confronti e farà di tutto perché anch’io viva quel dolore che si prova quando ti tolgono all’improvviso qualcuno che ami.
Questa è la società che mi circonda; questa è la vita che non ho scelto ma che sono costretto a vivere.
Ho sentito che in Belgio concedono il diritto d’asilo per chi è sotto vendetta come me. Ecco dove ripongo tutte le mie speranze: in uno Stato dove non mi riconosco ma che ha promulgato una legge a mio favore. Non ripongo fiducia e speranze nella gente della mia terra confidando che possano perdonarmi per uno sbaglio commesso vent’anni fa.
Non credo nella forza delle persone che consente di perdonare. Non credo che il dolore di una perdita o la sofferenza di aver causato una morte possa essere superata.
E così mi aggrappo al Belgio. È là che mio figlio vivrà una vita libera. Gli insegno a scappare e a non guardarsi indietro. Gli insegno a diffidare delle persone. Gli trasmetto che la concessione del perdono non è roba da umani.
Mi sento male per questo, perché io stesso mi considero una persona con una grande umanità. Ma non ci posso fare niente.
Il Belgio è un’oasi felice che mi permetterà di dare alla mia famiglia una vita migliore. Solo in superficie però. Cercherò di accontentarmi e di vivere quest’ingiustizia come se fosse la mia seconda chance. Tuo padre, Mark.

Laura