Verso una nuova storia: dal racconto al contro racconto...

Albania

Una delle prime cose che ho imparato dell'Albania è stata che la parola è una cosa importante, se non fondamentale, per gli albanesi. La parola, e in particolare il “dare la parola” e il “mantenere la parola”, assumono una rilevanza e un significato che investe non soltanto la sfera della persona e dei rapporti interpersonali ma anche della società tutta. Per una parola si può arrivare ad uccidere, con una parola si mette fine all'odio e ci si riconcilia, e ancora: con una parola si può mettere fine ad anni ed anni di rancore, vendette, odio, ripicche!

 

E' come se nel momento in cui viene detta, la parola, assume una consistenza, qualcosa di vivo che rimane indelebile nella memoria di chi la pronuncia e di coloro che la odono. La parola diventa una realtà tangibile e si circonda di una serie di significati e valori come il rispetto, l'onore, la fiducia, la solidarietà, il sacrificio, l'altruismo, il dare la vita per l'altro. Con la parola si costruiscono significati, realtà e condizioni esistenziali. In alcuni casi la parola può arrivare a determinare il senso di un'esistenza. La parola, nel momento in cui è pronunciata, diviene portatrice di senso che si trasforma in verità e tale valenza è un arma a doppio taglio: se da un lato è conduttrice di valori e significati positivi, dall'altro può divenire distruzione per sé e per gli altri.

Nel rapporto quotidiano con le famiglie in vendetta, abbiamo subito dovuto tenere conto dell'importanza che gli albanesi attribuiscono alla parola, non solo per non offendere la loro sensibilità ma per cercare di costruire dei ponti di dialogo, di facilitare i rapporti interpersonali e di aprire nuove possibilità di incontro tra persone che, non solo non si parlano e hanno tagliato i rapporti, coltivano così tanto odio da voler eliminare e “farla pagare” all'altro.

Col passare del tempo la parola, i discorsi, il confrontarsi, il parlare sono divenuti degli strumenti indispensabili nel lavoro che quotidianamente svolgiamo: facilitare i processi di riconciliazione e di perdono, indicando e testimoniando che un'alternativa alla violenza e alle reazioni violente è possibile. Di fronte ad un obiettivo del genere subito mi sono scoraggiato, e favorito dal contesto socio-culturale ho pensato: “è impossibile, le cose non cambieranno mai, non riusciremo mai a modificare in senso positivo tale situazione”.

Nella ricerca di superare questa fase di scoraggiamento ho cercato di coltivare la speranza, prima di tutto dentro me, che qualcosa si potesse fare perché l'uomo ha talmente tante risorse e potenzialità che è sempre possibile un cambiamento positivo e ha sempre la possibilità di ricominciare. Ho cercato allora di pensare a cosa potesse migliorare le condizioni di vita delle famiglie che visitavamo e che cosa potesse farle stare meglio e mi sono detto “Devi cominciare a conoscere queste persone veramente, nel profondo e le devi conoscere non solo razionalmente ma anche col cuore, in una parola, le devi amare”. Nel fare questo, interiormente e nella pratica, mi sono dato un metodo per la condivisione della vita con queste famiglie: osservare, ascoltare, conoscere, riflettere, pensare al bene di quella persona e famiglia. E allora mi son messo al “lavoro”, con risultati mai attesi ed inimmaginabili.

Una delle cose apprese con l'esperienza e il contatto quotidiano con le famiglie, (siano esse ngujuar, vale a dire in condizione di autoreclusione e che aspettano la vendetta, o persone che devono prendere il sangue, ossia vendicarsi), è che dare la possibilità di raccontarsi, di narrare la propria esperienza personale, diveniva un sollievo al dolore e all'angoscia di queste persone. Mi sono accorto, però, che allo stesso tempo il rischio era che le persone si fermassero solo alla loro storia fatta di fatiche, dolore, distruzione e rimanessero rinchiuse in una narrazione che non lasciava spazio al nuovo e al cambiamento. In altre parole, mancavano il futuro e la speranza.

Senza dubbio, il dare la possibilità di raccontare e raccontarsi era una cosa buona, che aiutava, ma se non si riusciva ad andare oltre c'era il rischio di chiudersi in se stessi e di isolarsi.

Le persone rischiavano di continuare ad abbeverare la propria esistenza dell'acqua stagnante formatasi dalla storia personale fatta di dolore e rancore e di continuare a nutrirsi con l'alimento amaro dei sensi di colpa, della vendetta e dell'astio.

Le persone devono superare il dolore, devono poter uscire dalla gabbia del passato per poter vedere la luce del cambiamento e dell'alternativa possibile alla violenza. Allora mi son detto: “Bisogna dare la possibilità di costruire qualcosa di nuovo, quasi a raccontare una nuova storia. Ma come? Col contro racconto!”.

Il “contro racconto” è un ri-raccontarsi e un ri-raccontare la propria storia personale pensando al futuro. È un pensare a come sarebbe diversa e a come potrebbe essere diversa la vita senza il rancore e l'odio, senza l'angoscia e i sensi di colpa, impegnandosi, a partire dalle proprie risorse personali, a rendere possibile questo nuovo “contro racconto”.

Abbiamo cercato, allora, di favorire questa possibilità, di favorire nella famiglie una ri-narrazione pensando al cambiamento.

Mi viene in mente una situazione di vendetta che stiamo seguendo. Le protagoniste sono due donne che si chiamano allo stesso modo: Shpresa, che in italiano vuol dire Speranza. Una Shpresa ha perso il marito (R) ed è rimasta vedova con 6 figli piccoli perché il figlio dell'altra Shpresa, B., l'ha ucciso.

B. e R. erano amici, si frequentavano e uscivano spesso insieme nel piccolo villaggio dove abitavano. Una sera di due anni fa, al bar, dopo una giornata trascorsa insieme si ubriacano e per una parola detta male tirano fuori i coltelli e R. ha la peggio rimanendo ucciso. Tragedia delle tragedie. B., finisce in prigione a soli 25 anni, Shpresa rimane vedova con 6 figli a carico, in mezzo alle montagne di Tropoja, tra mille disagi e avversità. Le due donne, che prima si aiutavano a vicenda ed erano molto amiche, non si parlano più e pur abitando vicinissime non si guardano in faccia.

Due famiglie distrutte. Shpresa ha raccolto tutto il suo coraggio e va avanti crescendo i suoi 6 figli da sola, vivendo con un piccolo sussidio e il duro lavoro della terra. L'altra Shpresa è angosciata perché il figlio è finito in carcere così giovane e anche quando uscirà le prospettive di vita non saranno delle migliori perché non basterà pagare il debito con la giustizia bisogna anche pagare il debito con la famiglia di R. e quindi correrà il pericolo di essere ucciso.

Noi conosciamo la situazione da un anno e mezzo circa e frequentiamo entrambe le famiglie in conflitto. Le famiglie sono a conoscenza che andiamo sia dall'una che dall'altra. La famiglia che aspetta la vendetta ci ha chiesto, fin dall'inizio, un aiuto per mediare una riconciliazione. Noi stiamo procedendo sia per ottenere una riconciliazione “ufficiale” (ossia il pajtimi, la riconciliazione ufficiale e pubblica dove la famiglia che ha perso un familiare promette che non farà nulla di male all'altra famiglia e perdona l'accaduto), attraverso l'incontro di parenti che detengono l'autorità per decidere se concedere il perdono o no (alla moglie del defunto non spetta l'autorità di avere l'ultima parola sulla riconciliazione, ma è ovvio che si tiene conto del suo parere); sia per fare un percorso di superamento della rabbia e del dolore con le famiglie delle due donne: la mamma del ragazzo che ha ucciso e la vedova. É un percorso difficile, dove si raccoglie a piene mani tanta sofferenza e dolore insieme a frustrazione e impotenza. Due dolori diversi di due donne che portano il carico principale delle rispettive famiglie.

Due donne che soffrono anche il fatto di non potersi parlare più come prima e di non avere più l'armonia che avevano prima tra le rispettive famiglie.

Shpresa, la vedova, dice di non sopportare di vedere quando passa vicino al suo cancello l'altra Shpresa, e che questo la fa soffrire. In altre parole un dolore immenso da una e dall'altra parte.

Con le due donne abbiamo fatto un lavoro volto al dare l'opportunità di raccontare la loro esperienza, di offrire uno spazio di ascolto e attenzione, dove il dolore inespresso possa trovare spazio e accoglienza. Ma dopo un po' di tempo abbiamo deciso di iniziare con un altro tipo di percorso, non bastava più soltanto raccontare e narrare la storia come è accaduta o le conseguenze che essa ha portato nella vita tutti i giorni. Bisogna andare oltre, pensare al futuro e al cambiamento.

È cosi che stiamo andando verso un'altra direzione, quella della costruzione di un “contro racconto”.

Stiamo cercando di creare le basi, gettando le fondamenta per la narrazione di una nuova storia dove le due donne possano riacquistare la gioia di vivere, possano essere fonte di vita e non di distruzione, possano divenire ancora una volta protagoniste attive della propria vita impegnandosi in modo costruttivo al cambiamento.

É dura. Sembra, a volte, di non riuscire a cavare un ragno da un buco e la sensazione di non combinare nulla si fa spesso sentire. Allo stesso tempo, piccoli ma straordinari segni di speranza accompagnano questo percorso.

La scorsa Pasqua, Shpresa (la vedova) che è musulmana, ci ha telefonato per farci gli auguri e ci ha chiesto se eravamo andati a parlare con i parenti di suo marito per la riconciliazione. Questo è straordinario, perché senza il suo aiuto noi non saremmo potuti andare perché non avevamo i contatti (abita a Durazzo, in un altra città) e non sapevamo come andare.

Lei ci ha facilitato la strada dandoci il numero di telefono e parlandone al cugino del marito.

Se lei fosse stata contraria totalmente avrebbe ostacolato e non facilitato questi passi iniziali per la riconciliazione.

Lei, pur affermando che nutre ancora dell'odio nei confronti dell'altra famiglia e dell'altra Shpresa, non ha ostacolato i nostri passi verso una riconciliazione, anzi una volta a settimana, fino a quando non siamo andati, ci ha chiamato per sapere se eravamo andati o meno dal cugino del marito.

Ciò mi fa pensare non solo ai miglioramenti fatti durante questo tempo ma che forse un nuovo racconto o per meglio dire un contro racconto, sta cercando di nascere nella vita e nei pensieri di Shpresa.

Marcello