I fatti ci sono amici?

Albania

L’esperienza della vita quotidiana ci porta a numerosi incontri, alcuni programmati altri casuali, alcuni attesi e desiderati altri non voluti e inaspettati. Nel nostro lavoro in Albania d’incontri ne facciamo tanti. Le nostre giornate si svolgono per la maggior parte del tempo incontrando e relazionandoci con le persone, con i membri di quelle famiglie con cui cerchiamo di entrare in contatto, di dialogare, di condividere la vita per poterle aiutare a riconciliarsi.

Visitando le famiglie, frequentandole ci imbattiamo nelle loro vicissitudini, nelle loro storie.
Impariamo così a conoscerle, ad apprezzarle e ad amarle. E così, man mano che la relazione e la fiducia cresce, volti un tempo anonimi diventano conosciuti, storie uguali o prive di interesse divengono uniche e irripetibili, fatti senza valore acquisiscono importanza. In un certo senso, noi volontari siamo dei testimoni di vicende umane, che altrimenti, cadrebbero nel pozzo senza fondo dell'indifferenza e della rassegnazione. In alcuni casi, entriamo a far parte di queste storie in modo attivo contribuendo a modificarle e in taluni casi a migliorarle. In altre situazioni invece, non riusciamo a far altro che a condividere vicende umane che per una serie di fattori e responsabilità multiple sembra non si riesca a modificarne l'esito.
Quella che sto per raccontare è una storia inaudita, dove dolore e povertà umana si mescolano allo sconcerto e alla fatica di chi c’è voluto essere a tutti e costi e a qualunque costo perché questa vicenda non si consumasse nell'indifferenza e si perdesse nell'oblio. Questa storia, accaduta nel 2012, non ha lieto fine, non fa sconti alla cruda realtà e non può che lasciare una lancinante nostalgia di umanità.
Sì, quel senso di umanità che a volte si ha la terribile sensazione sia stato perduto del tutto, ma che non ci si può permettere di non tentare di recuperarlo. So che potrei rischiare di risultare banale o retorico nelle parole che seguiranno, ma non importa lo farò lo stesso.

M., mora e di corporatura esile era alta all’incirca un metro e mezzo, sulla guancia aveva una cicatrice provocatagli dalla brutalità del padre, ma dentro ne aveva di ben altre maggiori che la consumavano giorno dopo giorno. Non andava più a scuola perché al padre era sembrata ormai troppo grande perché continuasse a studiare e preferiva tenerla a casa perché così usano i padri di ragazze rispettabili. Nonostante la mancanza di stimoli e lo squallore del contesto ambientale a M. piaceva leggere ed era molto brava soprattutto nelle lingue straniere che non imparava più a scuola ma bensì a casa guardando le telenovele italiane o spagnole. Era portata anche per il teatro, era un’attrice formidabile. Nel suo ultimo ruolo aveva interpretato una cameriera attirando l’attenzione di tutto il pubblico per la sua capacità e la sua espressività.
Aveva 14 anni quando K., suo padre, dopo aver perpetrato a suo danno, per anni e anni, maltrattamenti psicologi, fisici e finanche abusi arrivando a violarla nel corpo, le ha sparato in una montagna dove da alcuni mesi vivevano insieme lontano dalla madre L. e dai suoi fratellini.
M. stava cercando di scappare da quella brutta realtà, ma non c’è l’ha fatta. Non è riuscita a prendere quella barca che forse sarebbe stata la sua salvezza. Non ha fatto in tempo, M., a sapere se quel viaggio di appena mezz’ora le avrebbe regalato la possibilità di una vita diversa. Il suo desiderare una vita lontana dalle violenze del padre si è fermato in una spiaggetta lunga appena 2 metri. Quella mattina del 1 agosto lei ci aveva creduto. Aveva creduto che fosse possibile tentare il tutto per tutto, la vita o la morte. Ha rischiato e l’ha fatto con tutta la forza che aveva in corpo correndo in discesa lungo un sentiero di montagna per raggiungere quella barchetta. Ha lottato, M., da sola fino alla fine senza voltarsi indietro.
Noi volontari eravamo nelle vicinanze, a poche centinaia di metri dal quel luogo maledetto dove si è consumato l’indicibile. Stavamo cercando, insieme alla madre L., di trovare una soluzione per arrivare ad un esito positivo della vicenda. Fatti, contingenze, avversità, irresponsabilità di entrambi i genitori, assenza delle istituzioni, indifferenza e rassegnazione della popolazione e omissioni delle associazioni locali hanno consentito tutto questo. Responsabilità multiple hanno fatto sì che ciò accadesse. Non siamo riusciti ad impedire che a M. fosse tolta la vita e che K., a sua volta, si sparasse, pur avendo fatto tutto quello che era in nostro potere fare. Molte altre cose si potrebbero raccontare di questa storia: piccoli eventi determinanti, ore passate a lavorare e a sperare che l’irreparabile non avvenisse, particolari che forse hanno fatto la differenza, tentativi di dialogo, offerta di alternative possibili, sensazioni ed emozioni di quella giornata e dei mesi precedenti alla vicenda.
Davvero si potrebbero scrivere pagine e pagine, tutte con un loro senso e importanza. Migliaia di percezioni diverse e verità multiple potrebbero affiorare, a seconda del narratore e di chi è stato partecipe, con ruoli e modi diversi, in tutta questa storia.
Ma se si va alla sostanza, se si prova ad andare all’essenziale di questa vicenda, cosa resta, cosa rimane? In altre parole, a cosa potrebbe servire raccontare e narrare questa tragedia? Me lo sono chiesto più e più volte. Mi sono dato alcune risposte, una delle quali è che forse, quello che adesso, a fatti avvenuti, potrebbe essere utile è il testimoniare per fare memoria e rendere giustizia.
Fare memoria di quanto avvenuto è un primo passo perché questa storia non finisca nell’oblio o nella dimensione dell’inutile. Raccontare serve non tanto per imbarcarsi nei meandri di quello che sarebbe potuto accadere se le cose fossero andate in modo diverso, ma per fare di tutto perché certe cose, che non devono ma possono succedere, non accadano più.
In altri termini, uno dei passi successivi perché questa brutta vicenda umana non sia confinata nel non senso potrebbe essere chiedersi: “Cosa possiamo imparare da tutto questo? Come possiamo utilizzarlo per continuare a lavorare e operare al fine di costruire e promuovere la pace e la nonviolenza in un contesto strutturalmente violento?
Le risposte a queste come ad altre domande non sono date una volta e per tutte, ma si costruiscono giorno dopo giorno nella consapevolezza che spesso in situazioni difficili, complesse e indeterminate, gli unici modi d’agire sono quelli che vanno per tentativi ed errori proprio perché si ha a che fare con il mistero dell’essere umano. È sufficiente tutto ciò per fare i conti con la drammaticità di questo come di altri eventi? Basta questo a spiegare l’inspiegabile, a non sentirsi smarriti di fronte a tutto questo male? Forse no, ma è l’inizio di un lungo cammino. Voglio concludere con questa riflessione.
Carl Rogers, psicologo umanista di fama mondiale, che per molti aspetti è stato un rivoluzionario lanciando nuove prospettive sulla relazione d'aiuto, amava affermare che “i fatti ci sono amici”.
Questa frase rivela il suo ottimismo, la sua immensa fiducia nel prossimo, nella vita e nelle risorse infinite che ogni uomo possiede. A mio parere, però, Rogers ha esagerato, non ha tenuto conto della complessità del reale nel suo, a volte brutale, manifestarsi.
Mi sembra che non sia del tutto vero che i fatti ci sono amici. La realtà spesso ci dice il contrario. No, i fatti non ci sono amici al contrario molte volte ci sono nemici. Siamo noi che possiamo renderci amici i fatti.
Gli accadimenti in sé possono avere dei risvolti a volte tragici ma possiamo trasformarli in opportunità. Spesso i fatti, gli avvenimenti, i problemi, semplicemente accadono, non c'è nessuna connessione logico-causale che permette di stabilire il perché alcune situazioni vanno in un modo e non in un altro.
L'uomo, ha la straordinaria capacità di attribuire senso alle esperienze vissute e che in qualche misura lo cambiano. Il dare senso, il rileggere quanto avviene più o meno casualmente permette di creare nuove opportunità d'apprendimento e trasformazione in positivo, anche se è difficile crederlo.
Quest'opera di attribuzione e ri-attribuzione continua di nuovi significati alle vicende umane, diventa strumento formidabile per costruire orizzonti di senso capaci di generare vita e speranza.
È cosi, allora, che i fatti diventano nostri amici.

Marcello