Ecje per paqen

Albania

…passo dopo passo seminiamo speranza ovunque camminiamo.
questo non accade grazie a noi, ma grazie a quella luce che vediamo negli occhi delle persone che incontriamo.
Ci accorgiamo che queste persone ci stavano aspettando, soprattutto chi non è stato avvisato del nostro passaggio.

Nei loro sguardi si può scorgere la loro storia personale, ma ancor di più la storia che hanno vissuto come popolo.
Decenni di dittatura comunista, quaranta lunghissimi anni di isolazionismo, la pratica dell'ateismo forzato, il ferreo controllo del pensiero della popolazione da parte dei servizi di sicurezza hanno contribuito allo sviluppo di una mentalità basata sul sospetto.
La sofferenza di questa gente è tangibile ancora oggi.
L'uso della violenza camuffata dalla riscoperta di antiche tradizioni ne è in parte un sintomo.
Questo posto mi richiama alla mente alcune parole sentite anni fa in un altro contesto di conflitto armato: “la violenza che subisci, non scompare da sola, necessita di essere riconosciuta come tale e di trovare un giusto canale per farla uscire, altrimenti esplode nel peggiore dei modi”.
Noi oggi marciamo per trasformare e per ascoltare il dolore causato dalla violenza, per trasformarlo positivamente.
Non vogliamo che esso diventi odio, non desideriamo che si tramuti in una bieca giustificazione per ulteriori conflitti.
Vogliamo liberare questa rabbia e questo grido in modo costruttivo.
Per farlo cerchiamo di diffondere il meglio di ciò che la cultura albanese ci ha insegnato.
Rimaniamo sorpresi dalla bellezza dei posti in cui passiamo, dall'accoglienza delle persone, dalle domande dei curiosi.
In ogni luogo in cui arriviamo lasciamo qualcosa e prendiamo qualcosa, ripartiamo più arricchiti nell'anima.
Parliamo di perdono e di riconciliazione, di concetti che toccano il cuore del popolo albanese e veniamo ascoltati.
I giovani che hanno il volto meno segnato dalla storia del passato ci interrogano e si interrogano sul problema delle “vendette di sangue” e su quali possano essere le strade per superarlo.
Ma in realtà la luce che continuiamo a scorgere negli occhi delle persone che si avvicinano ci fa capire quanto secoli di invasioni e anni di regime non siano riusciti a schiacciare in questa gente la speranza di un cambiamento.
Oggi un signore in una Piazza di Laç ci ha lasciato una dedica.
Secondo lui la parola “gjakmarrje”, che letteralmente significa “presa del sangue” suona come un terribile imperativo a vendicarsi.
Scrive che sarebbe più significativo iniziare ad usare il termine “gjakfalje” ovvero “il perdono del sangue”.
Questo concetto sarebbe un imperativo infinitamente più importante.
La parola “pajtimi”, ovvero “riconciliazione”, continua a risuonare passo dopo passo...

Giulia