Instancabili lottatori

Nel 1956, in Alabama, M. L. King era impegnato nella lotta contro la segregazione razziale attraverso il boicottaggio degli autobus.
A Montgomery questa azione nonviolenta veniva realizzata e sostenuta dall’istituzione di un servizio volontario di vetture per accompagnare le persone al lavoro.
Dopo circa un anno, il sindaco della città presentò una risoluzione per sollecitare l’ufficio legale del Comune ad adottare provvedimenti per fermare questo genere di attività.
A questo riguardo fu fissata un’udienza. Nonostante tutte le battaglie condotte fino a quel momento, King poteva “sentire la fredda brezza del pessimismo passare sull’uditorio: la luce della speranza era sul punto di svanire e la lampada della fede di spegnersi” - M. L. King (1973), La forza di amare, Torino: SEI (pg. 103).

Ma, proprio durante l’udienza, nel bel mezzo di un intervallo che si pensava avrebbe preceduto la decisione del giudice di proibire ufficialmente il servizio di autovetture, un giornalista si avvicinò al tavolo degli avvocati in cui era presente King per comunicare una notizia che stava toccando tutto il Paese: la Suprema Corte degli Stati Uniti aveva da poco decretato all’unanimità l’incostituzionalità della segregazione razziale.
In “La forza di amare”, King scrive a questo proposito: “Delusione, dolore e disperazione sono nati a mezzanotte, ma il mattino viene” - M. L. King (1973), La forza di amare, Torino: SEI (pg. 104). Queste ultime parole di King mi ricordano quelle pronunciate da numerose persone che ho avuto l’opportunità di conoscere in Albania.
In particolare, un paio di mesi fa, Lule ci disse: “Nella notte più buia e più oscura, quando il mio cuore era al culmine delle sue ansie e affogavo nelle preoccupazioni, voi avete bussato alla mia porta e da quel momento non mi sono più sentita sola”.
Lule è nata in una delle aree montuose dell’Albania più impervie e isolate.
Aree dedicate solo alla pastorizia e alla coltivazione dei prodotti agricoli che si riescono a ricavare da una terra in molti punti arida.
Zone in cui l’unico credo sono i valori distorti di un antico codice, denominato Kanun, che cercano di regolare una vita sociale dove lo Stato non arriva o non vuole arrivare.
Aree dove la fede non è una scelta, bensì l’unica speranza.
Lule si è sposata giovane, secondo la tradizione, e ha avuto ben quattro figli, un maschio e tre femmine.
E’ rimasta vedova in una zona bellissima dal punto di vista paesaggistico, ma priva di stimoli, dove gli uomini spesso si ubriacano per non pensare alle fatiche della vita che conducono.
Quando Lule perse suo marito, le malelingue del vicinato continuarono per anni a dirle di dare via almeno uno dei suoi figli perché da sola non ce l’avrebbe mai potuta fare a mantenerli tutti.
Lule non lo fece mai.
Per lei sarebbe stato un male, un peccato troppo grande.
Preferì vivere spesso di stenti, cercando di crescere i propri figli in qualche modo.
Quando ci racconta la sua storia, per l’ennesima volta, Lule dice che solo Dio sa quello che ha passato, da sola, con quattro figli, sulle montagne.
Negli anni ‘90, quando la situazione del Paese è peggiorata a tal punto da non poter essere più sostenibile, Lule si trasferì con i suoi figli e la sua famiglia di origine nella periferia di Scutari per cercare migliori condizioni di vita.
E la sua situazione effettivamente migliorò, i figli crebbero, divennero grandi.
Suo figlio, Arbën, si sposò e, a sua volta, ebbe dei figli.
Anche le figlie di Lule si sposarono e si trasferirono in altre zone dell’Albania.
Ma una delle sue figlie, Pëllumbesha, si sposò con un uomo che la maltrattava.
Lule era molto preoccupata per il benessere della figlia e lottò in tutti i modi affinché si allontanasse da lui, evitando che finisse in qualche brutto guaio.
Per Lule fu un calvario che durò anni e che venne aggravato da un altro fatto.
Un giorno, dopo una violenta lite, Arbën uccise il suo migliore amico, Nik.
Lule ci ha raccontato spesso di come in un attimo tutto possa cambiare la prospettiva di un’intera vita.
Da quel tragico momento, Lule è rimasta di nuovo sola, il figlio in carcere, la nuora e i nipotini lontani.
Bardha, la madre di Nik, che conosceva bene, le ha tolto il saluto.
Lule, schiacciata dal senso di colpa e dall’incapacità di sapere cosa fare, si è aggrappata alla fede.
Oggi, quando parla del nostro arrivo di dieci anni fa, dice che, da quando siamo entrati nella sua vita, siamo riusciti, attraverso le nostre parole, a darle tanta speranza e conforto.
Abbiamo trascorso questi anni accompagnando Lule diverse volte a trovare suo figlio in carcere, ma soprattutto abbiamo frequentato Bardha, anch’essa vedova, dedicandoci ad assisterla nel lento e lungo processo di rielaborazione della rabbia e del dolore provocati dal lutto subito.
Bardha aveva assistito all’omicidio di suo figlio Nik poiché si trovava nel negozio di alimentari vicino al bar in cui si è compiuta la tragedia.
Nonostante suo figlio fosse un uomo adulto, Bardha si rimprovera di non essere riuscita a intervenire e di non essere morta al posto suo.
“Un figlio non dovrebbe mai lasciare questa terra prima della madre”, queste le parole di Bardha.
Negli ultimi tempi, la vita di Bardha è cambiata, frutto anche del percorso svolto insieme a noi.
È andata a vivere con l’altro figlio e la sua famiglia.
Non vuole avere a che fare con la famiglia di Lule, ma non nutre né odio né desiderio di vendetta nei loro confronti.
Bardha trascorre le giornate coltivando il suo splendido orto e assistendo alla crescita dei suoi nipoti.
Educa loro e suo figlio ad abbandonare qualsiasi proposito di ritorsione nei confronti del figlio e dei nipoti di Lule.
Non vuole la “vendetta di sangue” perché sa che potenzialmente essa provoca solo morte e dolore, all’infinito.
Spesso ci invita a fermarci per cena, dicendoci: “potete rimanere qui con me? Io non ho amici come voi quando non ci siete”.
In queste occasioni, suo figlio ci ringrazia per tutto quello che abbiamo fatto in Albania sino ad oggi: “l’Italia dovrebbe essere un Paese fiero di quello che avete fatto per noi e per mia mamma”.
Lule si rende conto che la nostra presenza accanto a Bardha e alla sua famiglia aiuta la sua situazione.
Il proposito di rinunciare alla vendetta permette alla famiglia di Lule di uscire dalla paura e dall’isolamento.
Andando a trovare Lule, di frequente ci siamo imbattuti in sua figlia Pëllumbesha, preoccupata di non riuscire a trovare un lavoro.
La spronavamo a non darsi per vinta: eravamo sicuri che se avesse iniziato ad uscire di casa per cercarlo seriamente, lo avrebbe trovato.
Pëllumbesha ha avuto bisogno di tempo e di fiducia per credere in se stessa e nelle sue capacità, ma alla fine il lavoro è arrivato e lei è diventata così competente da riuscire a mantenere i suoi figli da sola, risparmiando per garantire loro un futuro migliore.
Adesso Pëllumbesha sta persino pensando di aprire un’attività tutta sua.
In Albania, la lotta di queste persone può apparire silente e nascosta, ma è costante e continua. Molte delle persone che ho incontrato e seguito in questi anni sono lottatori instancabili: la loro tenacia mi ricorda quella di M. L. King e la loro perseveranza sembra seguire il suo inno di speranza "Free at last, Free at last, Thank God almighty we are free at last".

Giulia