Una porta sempre aperta

Il ritorno in Albania è stato tanto atteso, dopo la pandemia.
Rivedere una terra che ti è entrata dentro e scrutarla in costante cambiamento, le sue città in perenne trasformazione per stare al passo con un'Europa disorientata. E anche se il clima è mutato in questi ultimi anni, ho ritrovato lo stesso sole forte di sempre, quel calore che brucia la pelle e la nuca.
Un calore che ho provato durante tutti gli incontri di questi giorni: dall’emozione di ricongiungerci ai nostri amici e collaboratori con cui per anni abbiamo costruito il progetto contro le vendette di sangue in Albania, all’ansia di riabbracciare i membri delle famiglie di cui, con Operazione Colomba, ci siamo presi cura per molto tempo nel nord del Paese.
Abbiamo trascorso questi giorni come facevamo un tempo, visitando queste famiglie nei sobborghi di Scutari. Mentre ripercorrevamo quelle strade a noi tanto familiari, ci chiedevamo come le avremmo ritrovate e chi ancora fosse in casa. Quando arrivavamo notavamo la sorpresa e la gioia che, contemporaneamente, comparivano sul volto delle persone. Più volte ci è stato ripetuto “non vi siete dimenticati di noi” e noi prontamente rispondevamo: “e come avremmo potuto?”.
E tra tutti i vari racconti su come stanno, su come abbiano trascorso gli ultimi anni, su cosa fanno ora i loro figli, su come siano cresciuti bene, mi porterò sempre dentro i sacrifici che i giovani emigranti stanno facendo adesso per ripagare i genitori degli stessi sacrifici che hanno fatto per loro quando erano piccoli.

Mi porto dentro l’affetto di queste persone nel chiederci di noi, come di tutti gli altri volontari conosciuti negli anni.
Mi porto la loro incessante voglia di fare per migliorare le loro condizioni di vita e la loro meraviglia nel rivederci, come una promessa mai infranta.
Mi porto dentro anche il costante coinvolgimento nelle loro vite e il bene indiscriminato nei confronti di tutti noi volontari.
Porto con me alcune loro ferite che, al momento, non si rimarginano, come anche la certezza che alcune cose cambiano, ma altre sembrano non cambiare mai.
E, infine, il desiderio che rimanessimo ancora lì con loro, solo un altro po’, solo un altro po’...
Nel nostro peregrinare, non eravamo sole, ma spesso accompagnate da una sorprendente giovane volontaria, desiderosa di conoscere il nostro operato in loco e di visitare le famiglie seguite in passato. La sua sete di sapere ha incontrato il nostro bisogno di raccontare e trasmettere ciò per cui ci siamo spese per tanti anni. Non sono stati i nostri racconti a colpirla, ma vedere come le famiglie che siamo andate a trovare ci accoglievano. Questa profonda vicinanza e la solida fiducia che lei ha colto ogniqualvolta entravamo in una casa a lei nuova, le ha fatto dire una sera: “Avete lavorato proprio bene qui”. E’ stato un riconoscimento inatteso e sincero da parte di una persona che, da esterna, ha saputo mettersi in ascolto e ha voluto scorgere tutto ciò che stava dietro a quegli abbracci e a quel ritrovarsi.
Una delle parole che abbiamo udito dire di più dalle famiglie è stata “grazie”. “Grazie” sentivo e io di rimando “grazie a voi”, quando salutavamo una famiglia. E loro di nuovo: “No, non hai capito, GRAZIE”. In quel momento comprendevo che quel “grazie” nascondeva tutto il bene profondo dimostrato a queste persone, non solo con i messaggi di nonviolenza e di vita portati negli anni di apertura del progetto, ma soprattutto attraverso la presenza, l’accompagnamento (fisico ed emotivo) nonché il “fare insieme”. Tutto quell’esserci per 10 anni e le telefonate durante questi ultimi quattro: stare loro vicino nelle ore più buie e nelle paure più nere, condividere le loro inquietudini e attese prima di una visita in carcere, correre insieme in ospedale, festeggiare la notte di San Nicola, portare voci di speranza quando tutto ciò che circonda dice il contrario, manifestare insieme ai giovani, in decine di modi diversi e creativi, l’esigenza di trovare una nuova identità rispetto alla mentalità del contesto intorno… e potrei andare avanti, riempiendo pagine su pagine.
Quel “grazie” sottintende l’Amore e il Rispetto che Operazione Colomba ha riservato a queste persone in tanti anni trascorsi fianco a fianco. L’Amore e il Rispetto che le hanno fatto sentire importanti e degne fino a credere in se stesse e nella possibilità di diventare i loro sogni. Quel “grazie” ha il sapore di “Bukë, krypë e zemër” (Pane, sale e cuore), espressione che racchiude l’incondizionata ospitalità albanese. Quel “grazie” è rivolto a tutti noi volontari che siamo stati lì – per poco o per tanto – accanto a queste famiglie e che, insieme ad esse, abbiamo sostenuto un possibile futuro migliore. Questo futuro migliore in molti casi si è realizzato e continua a realizzarsi. In questi giorni, lo abbiamo visto coi nostri cuori.
Prima di tornare in Albania pensavo che fosse come aprire una porta: ci vuole qualcuno che schiacci la maniglia e la spinga. Invece, dopo esserci stata, ora so che la porta è sempre aperta. In qualche modo - che sia la forza dei rapporti costruiti o la magia della nonviolenza - ho percepito che continuiamo ad essere lì con loro e loro con noi. E, visto che la porta è aperta, continueremo ad esserci per loro, come loro per noi.
Giulia