Il seme di M.

È un giorno di pioggia e siamo diretti ad un fondo rivendicato da una comunità mapuche, loro la chiamano “recuperación”; recuperare la terra che gli è stata rubata con la violenza dallo Stato cileno nella seconda metà dell’ottocento; per i latifondisti e per le forze dell’ordine si tratta di usurpazione di proprietà privata.
Arriviamo e ad accoglierci c’è il Lonko. Ci sediamo all’interno della loro casa, fatta di lamiere e teli di plastica. All’interno fa freddo, c'è una vecchia lavatrice utilizzata come camino. Sotto i nostri piedi scorre un fiumiciattolo creato dalle forti piogge. Chiedo da quanto tempo vivono in queste condizioni, mi rispondono che sono qui da gennaio. Rimango sorpreso. Condividiamo un mate e un’ottima zuppa di fagioli. L’amore che si prova per questa celestiale comunità è racchiuso in un’unica persona: M., che ha deciso di dedicare la sua vita alla salvaguardia del territorio e della cultura Mapuche. Dopo il pranzo inizia a cantare in mapudunkun, la sua voce vibra potente nella stanza: "Noi siamo il popolo della terra e faremo di tutto per proteggerla".


Stando qui mi accorgo di come le comunità mapuche possano insegnarci un altro modello di sviluppo: non estrattivista, ma basato sul rispetto della natura.
Dopo circa 150 anni di cieca fiducia nel paradigma positivista dell'ultimo secolo, è necessario un repentino cambio di approccio all'interno dei processi di globalizzazione economici e politici. Si tratta di un cambiamento che nasce dalla consapevolezza sempre maggiore di un sovra-sfruttamento diffuso delle risorse naturali. Le lotte per la terra sono sempre più frequenti. In Araucaria territori vastissimi sono destinati alla monocultura, ai fini di una produzione esasperata.
Thomas Sankara disse: "Non è possibile fare un cambiamento radicale senza una certa dose di follia. In questo caso si tratta di non conformità: il coraggio di voltare le spalle alle vecchie formule". La follia di queste persone, che sopportano attacchi continui da parte dei carabineros e le intemperie atmosferiche, mi illumina.
Per uscire dalla crisi climatica dobbiamo sbarazzarci del mito della crescita. Quantomeno del concetto di “crescita” intesa come consumo, sfruttamento, distruzione.
Osservando l’essere umano, nel bene e nel male, mi ha sempre colpito il fatto che ogni singola persona, nel suo piccolo, può cambiare, può insegnarci e donarci qualcosa. Come un seme, che se curato e accolto potrà poi dare frutto. Sono sicuro che il seme di M. un giorno darà il frutto che lei desidera: a piccoli passi è possibile concretizzare anche ciò che sembra essere un'utopia.
Grazie, M., per avermi lasciato un senso profondo di responsabilità.

Pietro