Non c'è nessun sequel

Alcuni volontari di Operazione Colomba in questi giorni sono a Lesbo, in Grecia, per conoscere la realtà di alcune Associazioni che fanno soccorso in mare. In questo momento storico, in cui in molti invece di celebrare la caduta dei muri ne vorrebbero innalzare altri, ci vogliamo impegnare e rimanere umani, cercando sempre di stare dalla parte delle vittime.

Siamo sulle coste di Lesbo, nella parte nord in un piccolo villaggio di pescatori che conta si e no 150 anime, Skala Sykamineas.
Guardiamo questo lembo di mare che divide la Grecia dalla Turchia.
Qualcuno dice che lì in mezzo tra le onde c'è un confine.

Motovedette greche e turche, assieme a quelle di Frontex, cercano di ribadire che questa linea immaginaria è reale, che è impermeabile e non si può passare.

Ma è come scavare un tunnel con un cucchiaino, o vuotare un fiume con una forchetta: le persone lo attraversano e continueranno a farlo, se non qui, qualche km più in su.
La gente che lo fa (dopo averci provato 4, 5, 6 volte) non è guidata da sogni di gloria, ma da incubi di paura: sono afghani, siriani, turchi che scappano lasciando le loro case, i loro letti, i loro sogni e le loro storie dietro di sé, forse per un po', forse per sempre, forse non si saprà mai.

E rischiano tutto in questa lingua di acqua: rischiano il futuro se verranno detenuti o inseriti in qualche campo; e rischiano pure il passato nel caso in cui il loro guscio artigianale si capovolga e i flutti li accompagnino nel fondo dell'oblio, legati a una morte senza nome né ricordi.

Ma come si fa a scegliere tra un non-futuro nei campi profughi, schiavi di una burocrazia senza senso che rimbalza persone come se fossero sacchi di patate (senza l'etichetta di provenienza), e una morte senza nessun testimone in mezzo all'acqua che se non la conosci (o la vedi per la prima volta) fa una paura bastarda, è come il vuoto, come il buio, freddo e senza fine.

Qualche notte fa, su uno di questi gommoni (in inglese dinghy) è arrivata una donna, settantenne e inferma, non poteva camminare.
Aveva caricato sull'imbarcazione la sua sedia a rotelle.
La barca fatiscente è arrivata a ridosso di una scogliera. I ragazzi di Mochara e Lighthouse relief hanno dato una mano a farli sbarcare in una spiaggia costellata di scogli, al buio, perché ormai il gommone era incagliato.
Hanno accompagnato tutti (vecchia con carrozzella compresa) nel paesino più vicino, passando per sentierini delle capre, che lì sulla costa di strade non ce n'è.
Dopo la prima accoglienza e le prime cure mediche (tanti arrivano in ipotermia, soprattutto bambini e anziani), l'anziana signora ora è nel campo profughi di Moria che potrebbe accogliere 3000 persone, ma al giorno d'oggi ne tiene più di 15mila (c'è una doccia ogni 70 persone, un bagno ogni 40, le persone vivono per lo più in tende di fortuna e l'inverno sta arrivando).
E qui si ferma il racconto perché non c'è nessuna frase ad effetto che può farmi chiudere in bellezza queste poche righe scarne.

Solo lo schifo, la rabbia e la vergogna per questa idea dei confini da difendere e dei privilegi da tenersi per se.
Non c'è nessun sequel a queste mie frasi che riporto, perché la storia per la settantenne inferma arrivata con la sua sedia a rotelle, molto probabilmente si fermerà qua, a pochi passi dentro il cancello della nostra fortezza Europa, sempre più codarda e fascista ogni giorno che passa.
Passo e chiudo, senza lacrime e senza sorrisi.