Seguire la spazzatura

Art. 13 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani
Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento
e di residenza entro i confini di ogni Stato.
Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio,
e di ritornare nel proprio Paese.

Camminare lungo la rotta balcanica dei migranti significa seguire le tracce di una popolazione eterogenea che viaggia.
Come segugi, si avanza con lo sguardo basso a terra, per intravedere i segni lasciati dietro di sé da chi attraversa il mondo per raggiungere il sogno europeo.
Bottiglie di plastica, schede telefoniche, maglioni, giacche a vento, scarponcini da neve numero 26, coperte di lana, cellulari distrutti, si trova di tutto tra le foglie e il fango dei sentieri di montagna.
Sono le tracce di chi viaggia in direzione ostinata e contraria, verso nord-ovest.

E più ci si avvicina alla Croazia, più si trovano guanti bianchi in lattice e mascherine verde acqua, che sono le tracce di chi vuole riportare indietro i viaggiatori, al punto di partenza.
Guardiani letteralmente in guanti bianchi, che non si fanno scrupoli a sconfinare in Bosnia, maneggiando la violenza spietata che spezza le ossa e frantuma le speranze.
Chi ci prova, lo chiama game (gioco) con l’amara ironia di chi sa di non avere alternative.
E ogni volta i giocatori vengono riportati al punto di partenza, in un insensato gioco dell’oca al massacro.
Ci muoviamo anche noi lungo questo rotta, attraversando le tappe di questa marcia, nel freddo del grigio gennaio bosniaco: Velika Kladuša, Bihač, Ključ, Tuzla; i luoghi che 25 anni fa hanno visto fuggire un’intera popolazione per l’ultima guerra nel cuore dell’Europa, oggi si vedono attraversati da questa umanità dolente in cerca di riscatto.
I giovani viaggiatori si aggirano circospetti per la strada e nei parchi cittadini, non hanno più di 30 anni, e il sorriso di chi non vuole arrendersi.
Arrivano dall’Afghanistan, dal Pakistan, dall’Iran, addirittura dal Nepal, alla ricerca del loro posto in Europa: lavoro, diritti, libertà.
Visitiamo i campi ufficiali, dove la detenzione di migliaia di persone per ciò che sono e non per ciò che (non) hanno commesso, viene addolcita dall’offerta dei corsi di lingua, dalla scuola per i bambini, da un po’ di riscaldamento.
Basta trasformare un vecchio hotel per turisti jugoslavi in un centro di accoglienza per famiglie e il gioco è fatto.
Solo che la Jugoslavia non esiste più, l’accoglienza prevede il controllo della security privata e i bambini non vedono l’ora di andarsene.
Incredibilmente non vengono nemmeno riempiti tutti i posti disponibili, nonostante i parchi e gli edifici abbandonati ospitino molte persone lasciate al freddo.
Il termometro segna 2 gradi e un uomo fa il bucato nel fiume Una.
Fortunatamente in questo viaggio incontriamo anche le sentinelle dell’umanità: chi offre ai viaggiatori assistenza telefonica gratuita e la lavatrice di casa per riprendersi la dignità; chi distribuisce abbigliamento invernale per sopravvivere nei passi di montagna; chi regala il calore dei sacchi a pelo; chi offre un sorriso distribuendo un bicchiere di té caldo.
C’è perfino qualcuno che cura le ferite ai piedi, uno scorcio di Vangelo in terra.
Non stupisce affatto che le sentinelle siano in maggioranza donne, mosse alcune da spirito materno, altre da sete di giustizia, altre ancora dall’empatia di chi nella disperazione della guerra ci è passato davvero.
“Sono stata rifugiata anch’io, so che cosa significa”, ci dice una signora con gli occhi lucidi.
Impossibile non sentire gli echi della guerra recente qui, tra i palazzi che portano ancora sulla facciata le sventagliate dei mitra.
Abbiamo incontrato luoghi surreali: stazioni dove i treni non viaggiano più, ma i cui binari sono popolati di gente.
A Tuzla, sotto gli occhi di tutti, ci sono almeno 130 tende e un paio di bidoni a fare da braciere per scaldare ragazzini e giovani che sognano l’Europa.
E contemporaneamente abbiamo sostato in stazioni inesistenti, su frontiere non segnate, dove però i viaggiatori, ma solo gli uomini, vengono fatti scendere dal pullman, perfino di notte, e abbandonati al freddo pungente della campagna bosniaca.
Una famiglia curda ci racconta il suo viaggio: Iran, Turchia, Grecia, Bulgaria, Serbia, fino alla Bosnia, sognando la Germania, dove finalmente le lauree in ingegneria, chimica, medicina potranno valere qualcosa.
Hanno aspettato anni a Teheran, hanno fatto domanda ufficiale in ambasciata per viaggiare con un visto, in aereo.
Nessuna risposta.
E allora hanno venduto la casa e tre mesi fa si sono messi in viaggio.
A piedi.
Per coronare il loro sogno: lavoro, diritti, libertà.
Rientrare nella fortezza Europa dà un senso di nausea: il privilegio del passaporto bordeaux che ormai non viene nemmeno timbrato.
L’ovvietà del privilegio di chi gode di Diritti, che non si accorge nemmeno di poter esercitare.
I nostri confini sono sorvegliati da chi il lavoro sporco lo sa fare bene e in silenzio, senza turbare la serenità dei fortunati.
Le tracce di spazzatura mi sembrano le uniche tracce pulite.
Sara


Dal 15 al 22 gennaio 2020, i volontari di Operazione Colomba hanno toccato alcune delle principali tappe della cosiddetta “Balkan route”, la rotta via terra che viene percorsa ogni giorno da centinaia di persone che cercano di raggiungere i Paesi dell’Unione Europea. Questo percorso di migrazione parte dai Paesi di provenienza in Asia, attraversando tutta la penisola balcanica, fino alla frontiera croata, la più difficile da oltrepassare, che segna il primo ingresso nell’Unione Europea.