Diari da Lesbo (Grecia) – Dicembre 2020

Οἱ μὲν ἰππήων στρότον οἰ δὲ πέσδων
οἰ δὲ νάων φαῖσ' ἐπ[ὶ] γᾶν μέλαι[ν]αν
ἔ]μμεναι κάλλιστον, ἔγω δὲ κῆν' ὄτ

τω τις ἔραται.


C'è chi dice sia un esercito di cavalieri,
c'è chi dice sia un esercito di fanti,
c'è chi dice sia una flotta di navi sulla nera terra
la cosa più bella, io invece dico
che è ciò che si ama.
 
(Saffo – Trad. A. D’Andria)

 

LA FINE DEL MIO SOGNO EUROPEO

Giorno 1 – Partenza

Non avevo mai visto Malpensa così spettrale e deserta, interi settori dell'aeroporto sono chiusi con l'ingresso sbarrato. Alla partenza siamo pochi, tutti muniti di documenti sanitari, dichiarazioni per il Governo greco, autocertificazioni per le autorità italiane, e mascherine: una trentina di greci che tornano a casa, qualche studentessa con gli occhiali alla moda, un hipster con l'aria da fotografo freelance, un paio di imprenditori, immancabilmente veneti. Aleggia ovunque profumo di igienizzante.
In volo basta un pacchettino di biscotti Papadopoulou e si è già in Grecia. Dal mio posto finestrino scorgo le isolette della Croazia illuminate dal sole, in un cielo di nuvolette pannose.

Vista da qui la costa mediterranea rivela davvero se stessa: una linea senza soluzione di continuità, un unico luogo che sembra ricamato nel mare in deliziose isolette e graziosi villaggi. Da vicino invece si fraziona in un'alternanza di frontiere, che impediscono ai migranti di camminare liberamente. La periferia di Atene mi accoglie con un cielo incerto se essere azzurro davvero, qualche ulivo e una temperatura tiepida. In giro c'è poca gente a causa del lockdown nazionale.

 


Giorno 2 – Arrivo

Altro giro, altro volo. All'imbarco due tedeschi, due ragazze del nord con gli zaini da attiviste, un prete in clergy e la sua collaboratrice di lingua tedesca, due viaggiatori internazionali con la t-shirt di Amnesty International, due spagnoli e un italiano che bevono birra, e giusto un paio di locali che probabilmente tornano a casa. Lesbo ormai è l'isola degli attivisti stranieri.

Giorno 3 – Il primo incontro

Il primo approccio all’isola prevede un giro di ricognizione. Dal finestrino della nostra FIAT vedo il porto graziosamente addobbato per le festività. Una Saffo di marmo mi dà il benvenuto davanti a quattro enormi imbarcazioni grigie della missione Frontex ormeggiate davanti a lei. Che beffa per la poetessa, il suo panorama assediato da navi che ricordano mezzi bellici. Proseguendo lungo la strada perimetrale, che circonda tutta Lesbo, incrocio murales e scritte di protesta contro la situazione in cui versano le persone recluse nei campi. Mi lascio alle spalle la cittadina di Mytilene sulla destra e, superato il supermercato, compare il campo di Kara Tepe. Davanti all’ingresso sono schierate pattuglie di polizia greca, mentre all’interno della cancellata si vede una lunga fila di persone che aspetta qualcosa. Una volante della polizia stradale ferma la nostra auto e controlla i documenti, annota i nostri dati e la targa, poi ci lascia proseguire.
Saliamo verso l’interno dell’isola e arriviamo a destinazione: il vecchio campo di Moria, o quel che ne resta.
Dopo l’incendio del settembre scorso sono rimasti in piedi solo gli scheletri delle tende improvvisate, ironicamente su uno di essi si legge ancora la provenienza del telo di plastica: European Union Humanitarian Aid; l’unico angolo scampato alle fiamme mostra la bandiera blu e il cerchio di stelle. Sul muretto che circonda tutta l’area leggo dipinto un avvertimento: ecco il cimitero dei Diritti Umani. Nonostante l’atmosfera tetra, il mio sguardo cade su un girasole, che è riuscito a spuntare dal terreno bruciato. Questa è l’isola della sopravvivenza, malgrado tutti gli ostacoli.
Scopro che dal nuovo campo di Kara Tepe le persone possono uscire solo una volta alla settimana per massimo 4 ore; che le tende nel campo non hanno nessuna forma di riscaldamento; che non c’è acqua calda e le poche docce sono all’aperto, a dicembre; che non c’è nessuno spazio dedicato ai bimbi dentro al campo; che le persone non possono nemmeno cucinare, né accendere fuochi, né avere accesso alla corrente elettrica se non per qualche ora al mattino e alla sera; che l’accesso alle cure mediche è limitato e difficile; che non c’è nessuna forma di istruzione o educazione scolastica per i bambini; che tra fango e ghiaia non c’è alcuna possibilità di movimento per le persone disabili; che quando piove si allaga tutto il campo; che le tende vicine alla riva vengono inondate dall’acqua del mare; che le persone aspettano i pasti in piedi in fila per ore all’aperto. Tutte queste informazioni mi travolgono come uno tsunami che mi fa boccheggiare senz’aria per qualche minuto.

Giorno 4 – La solidarietà

Mi chiedo se le lacune nel rispetto dei diritti di queste persone possano almeno essere colmate dalle ONG presenti sull’isola, ma la risposta mi giunge come una porta chiusa in faccia: le ONG non possono operare in alcun modo, se non previa registrazione presso le autorità governative greche e sottoscrizione di un patto di riservatezza sulle informazioni in loro possesso. L’ostilità nei confronti delle persone solidali, greche o internazionali che siano, è palpabile. E si ripercuote in modo inquietante negli episodi frequenti di fermo o arresto dei giornalisti che cercano di documentare i respingimenti in mare dei natanti di profughi provenienti dalla costa turca, che cercano di sbarcare sulle spiagge di Lesbo.
Incontro qualche fotografo, gente capace, che sa come affrontare un interrogatorio spiacevole senza lasciarsi intimidire. Ma perfino il loro sguardo si vela quando raccontano del sequestro dei telefoni e delle foto segnaletiche che sono stati costretti a subire, nonostante la presentazione delle credenziali da giornalisti. La censura si fa strada sgomitando perfino dentro l’Unione Europea, la cosiddetta Patria del diritto. Da europeisti convinti, cittadini cresciuti tra periodi di studio all’estero e scambi culturali, ci guardiamo tutti preoccupati: da quando non siamo più liberi a casa nostra?
 
Giorno 5 – La violenza

La violenza permea ogni cosa su quest’isola. Parte da lontano, dalla propaganda anti-turca degli abitanti greci, attraversa gli eventi del Novecento con la cacciata dei Greci dell’Asia minore, fino ad arrivare alla realtà odierna. A una prima occhiata superficiale, oggi non si vede nulla di strano, la vita scorre normalmente a Mytilene. Se non ci fossero le scritte di denuncia sui muri, Lesbo parrebbe una normale isoletta dell’Egeo che si prepara a un Natale addolcito dal sole.
Ma a uno sguardo più attento, ai piedi della statua di Saffo si vede qualche ragazzino straniero che cerca di sbarcare il lunario offrendosi agli orchi, inevitabilmente locali. Qualche operatore umanitario è convinto che, rispetto alla situazione precedente del campo di Moria (scomparso tra le fiamme a settembre scorso), la gestione attuale di Kara Tepe limiti l’uso della violenza e tuteli dalla violenza sessuale i più vulnerabili. E invece la violenza è solo sotto traccia, meno evidente. La prostituzione è solo meno smaccata, avviene nel buio delle tende ordinate, una accanto all’altra. Una bambina di 3 anni è stata trovata sanguinante nel fango del campo, vittima di ogni peggiore atrocità. L’orrore non cambia, ma si vede meno. Chi aveva il dovere di proteggere quella vita? Nessuno si assume la responsabilità di un futuro di traumi.
Come se non bastasse, la violenza a bassa intensità si è espansa come un gas venefico in ogni altro spazio dentro Kara Tepe. Le attese infinite, le urla delle forze dell’ordine come risposta alle domande, i divieti gratuiti, i dinieghi a fronte di richieste legittime, gli spintoni alle persone in fila hanno fiaccato gli animi dei detenuti, fino all’accettazione della proposta dei rimpatri volontari. Ma quanto c’è di volontario nel rientro in una Patria dalla quale si è fuggiti con ogni mezzo? Eppure la mia ispirazione di progresso, l’Unione Europea, sembra crederci, e anzi, ne caldeggia l’aumento con accordi indicibili con Paesi in cui sindacalisti, difensori dei Diritti Umani, reporter e femministe vengono quotidianamente assassinati.
Ascolto i racconti di chi da anni si oppone al dolore, ricucendo ferite e lenendo mali psicologici che difficilmente guariranno. Mi chiedo come si possa affrontare questo ogni giorno senza lasciarsi sporcare, mantenendosi integri. Dopo solo qualche giorno io mi sento sopraffatta. I pochi progetti delle ONG che lavorano dentro al campo sono indirizzati alle persone più vulnerabili: donne e bambini. Ma in questo modo la maggiore fetta di popolazione detenuta a Kara Tepe – gli uomini soli – viene abbandonata al proprio destino. L’autolesionismo è la normalità: tagli sulle braccia, tentativi di suicidio, la promiscuità costretta dal collocamento nei tendoni collettivi di molti minorenni registrati ingiustamente come maggiorenni.
È tutto sbagliato, è tutto ingiusto. È la fine del diritto: la detenzione per uno stato (essere un migrante privo di documenti) e non per un reato. Il celebre professore di procedura penale che insegnava nella mia facoltà di giurisprudenza ripeteva incessantemente che non si può essere condannati per ciò che si è, ma per ciò che si fa. E invece no. L’Unione Europea, la mia casa del diritto, è stata svuotata di significato, e io mi sento defraudata del mio sogno di giustizia.

Giorno 6 – Nuovi amici

Oggi sono andata a conoscere nuovi amici. Entriamo nel loro appartamento e ci scambiamo le presentazioni: noi siamo in tre, loro sono in sette, una bella famiglia numerosa con cinque figli tra i 5 e i 20 anni. Si chiacchiera in inglese, un paio di battute sui propri rispettivi luoghi d’origine, mentre gustiamo il pane ancora tiepido. La preoccupazione principale del signor Ahmed è l’assenza di educazione scolastica dei suoi figli, che da ormai cinque anni non frequentano alcun Istituto. Già da prima della partenza dall’Afghanistan, Ahmed e sua moglie erano così preoccupati dalle autobombe quotidiane a Herat e dai frequenti rapimenti che avevano impedito ai figli di andare a scuola. Ahmed ci racconta che gli piaceva il suo lavoro, si occupava di sviluppo sostenibile nelle aree settentrionali del suo Paese, era dipendente di una ONG tedesca. Aveva anche frequentato un training alla sede di ILO di Torino. Insomma potremmo essere colleghi, o forse lui potrebbe essere il mio capo se lavorassimo insieme.
La conversazione procede spedita sugli argomenti che evidentemente appassionano tutti i presenti: geopolitica, scelte legislative, orientamenti politici, storia. La nostra ignoranza è palese, di storia afghana non sappiamo molto, e di politica attuale ancora meno. Il mio eurocentrismo occidentale mi fa sentire figlia di quel Bartolomé de Las Casas che critico spesso, e provo vergogna mentre rifletto sull’ingiustizia che ha permesso a me di studiare all’estero e scegliere dove lavorare, e al signor Ahmed di restare incagliato in questa vita di attesa, con l’etichetta di profugo cucita addosso. Mentre saluto rispettosamente il signor Ahmed e la sua bella famiglia assetata di cultura, mi chiedo perché la mia cara Unione Europea che mi ha regalato l’Erasmus in Olanda non conceda a quei ragazzi la stessa istruzione. Tra l’atteggiamento protezionistico della formazione e l’accesso libero alla cultura, preferire la prima scelta mi pare miope.
L’UE vuole davvero abdicare a formare nuove generazioni che magari in futuro potrebbero essere la chiave di volta per la pace nei loro Paesi di origine?
E se i figli del signor Ahmed potessero un giorno porre le basi di una democrazia compiuta in Afghanistan?
Il mio sogno europeo infranto potrebbe rinascere in loro.

Sara