Il dovere di raccontare

Sono stata in Albania due anni e mezzo con la Colomba eppure mai ho sentito così forte il bisogno e il dovere di raccontare come da cinque giorni a questa parte, quando sono arrivata sull'isola di Lesbo.
Il dolore delle famiglie albanesi era un dolore intimo, profondo, e così sentivo che andava raccontato, piano, prendendosi il tempo di rielaborarlo, sottovoce, sussurrato alle orecchie di chi si prendeva il tempo per capirlo.
Il dolore delle persone su quest'isola, invece, urla, e così sento che va raccontato.
Va urlato affinché giunga alle orecchie di tutti.
Va raccontato in fretta, a più persone possibile, perché è un dolore che chiede giustizia.
Il dolore dei profughi di Lesbo è un dolore straziante, che racconta di Diritti violati, di infanzia negata e di vite dimenticate.
È un dolore che non necessita di grandi parole per essere compreso perché è immediato, è uno schiaffo a mano aperta sul viso.

Fa male perché racconta storie di persone normali, che chiedono cose normali, la scuola per i loro figli, un medico quando stanno male, cose normali che a loro sono negate da leggi ingiuste che decidono chi merita di sperare e chi no.
È il dolore di Ismail, ragazzo siriano dal sorriso contagioso.
La sua scuola è stata bombardata quando aveva 14 anni.
È scappato in Turchia per farsi curare e dopo cinque anni ha deciso di tentare la via europea, per avere una vita degna.
Qualcuno ha deciso che non lo meritava, è arrivato un rigetto, poi un altro.
È stufo e tenterà "the game", il gioco.
Proverà a raggiungere un'Europa che spera sia più giusta attraverso la Rotta Balcanica, attraverso la mia amata Albania.
Rrugë të mbarë, Ismail, che la strada ti sia buona.
È il dolore di Karima, ha dieci sorelle in Afghanistan, la più grande ha quattro figli ed è incinta del quinto.
Un'altra sorella è giornalista per una radio locale e ha sempre criticato i talebani.
Non sa più nulla di loro.
I suoi genitori e le sue sorelle potrebbero essere vivi o morti, al sicuro o in pericolo.
Ma lei non ha notizie, non si sa più nulla di questa famiglia la cui unica colpa è essere di etnia hazara.
È il dolore di Abdul, uomo somalo che si illumina quando gli diciamo che siamo italiani.
In italiano ci racconta che finalmente ha i documenti e sta partendo per Atene, ma suo figlio ancora no.
E si devono separare.
Proprio qui, dove il sogno sembrava potersi avverare, proprio a due passi dalla tanto agognata Italia.
 
Sono dolori strazianti, sono dolori che chiedono solo di avere giustizia.
Sono dolori che chiedono Diritti.
Non vogliono soldi, non vogliono le cose facili.
Vogliono dover preoccuparsi di cose "normali": delle pagelle non ottime, del conto del dentista, e non della paura di essere deportati in un Paese che li vuole morti.
 
È un dolore che ci interroga: è così assurdo chiedere di essere umani?

Nadia