La dignità ha un vestito rosso a pois

Indosso le mie sneakers a tre strisce nere, muovo passi né lenti né veloci tra l’asfalto e le chianche della città vecchia di Mitilene.
Non penso a nulla di particolare, mi guardo intorno, cerco di catturare frasi, sguardi e storie dai miei compagni di viaggio, che sono qui da più tempo di me. Non chiedo nulla di particolare perché ogni cosa mi interessa molto, sono aperta alla conoscenza e all’ascolto di storie di persone che così hanno un volto anche per me.
Arriviamo a una casa con l’unico muro esterno di colore bianco e arancione sbiadito, una finestra aperta protetta da una vecchia zanzariera, la porta di ferro grigia e semi aperta, ma ecco che all’improvviso si spalanca del tutto e ci viene incontro correndo una piccola bimba di 4 anni. Salutiamo in arabo “Salam, Selma”, subito dietro di lei c’è la sua sorellina maggiore con indosso un bellissimo vestito di tulle rosso a pois neri.

Selma è piccolina, magrolina, ha i capelli castani raccolti in un curioso codino a metà, mentre sua sorella maggiore ha tantissimi capelli lunghi e neri che sembrano mangiarsi la sua faccina, la frangetta è lunga e si apre sulla fronte facendo spazio ai suoi occhi grandi e neri, la guardo in silenzio e penso tra me di non aver mai visto degli occhi così neri e profondi. Ecco venirci incontro il signor Amir con sua moglie, che ci invitano ad entrare nella loro casa. Varchiamo la porta e la prima cosa da fare è togliersi le scarpe per entrare nella stanza dai tappeti rossi con disegni a fantasia blu. Ci accomodiamo a terra e subito il signor Amir ci mette dietro la schiena un cuscino per ognuno affinché possiamo stare comodi, poco importa se gli diciamo di no, che i cuscini non servono, per lui noi dobbiamo stare comodi. Siamo tutti nella stanza tranne sua moglie, che arriva dopo poco con un vassoio con le tazze e il bollitore del “chai” che versa per ciascuno, senza curarsi di chiedere se lo vogliamo, perché noi, ad ogni modo, lo vogliamo; ecco, adesso siamo tutti insieme, Elona, Elia, Michela, Mariaserena e io che ho di fronte il signor Amir, la moglie di cui non capisco il nome, la piccola Selma e sua sorella nel suo bellissimo vestito rosso a pois. I miei compagni chiedono al signor Amir come stanno e lui, respirando molto profondamente tra una parola e l’altra, ci dice che stanno bene, gli è anche passato il dolore che aveva alla spalla. I suoi movimenti sono lenti, ha una mano nell’altra e lo sguardo sempre rivolto sul tappeto, si coglie un certo disagio, nonostante sia visibilmente contento di vederci. La moglie ci guarda e ci sorride, mentre prova a dire una parola ogni tanto in Farsi. La piccola Selma decide così di rompere il ghiaccio e di intrattenerci tutti contando i numeri da uno a cinque in lingua greca. Ecco che l’attenzione di tutti è rivolta a Selma che intuisce di essere la protagonista indiscussa di quel momento e continua senza sosta a contare i numeri, questa volta saltando il Pendhe (5) e arrivando direttamente all’Oktò (8). Ridiamo tutti e ride anche la sua sorellina, che resta in disparte vicino alla porta, mentre le facciamo i complimenti per quel suo elegantissimo vestito di tulle rosso a pois. Lei sorride molto timida e le mani del suo papà continuano a sfregarsi l’una dentro l’altra con questi movimenti lenti e questo suo parlare a voce bassa. Non posso non pensare a cosa può avere nel cuore un uomo come lui, che ci racconta di aver lavorato come soldato in Afghanistan e di aver collaborato con gli americani, mentre ci mostra dal cellulare le sue foto fiero nella sua divisa. Le foto scorrono più velocemente della sua vita, da quando è arrivato con la sua famiglia in questo fazzoletto d’Europa troppo piccolo per contenere sogni troppo grandi come la libertà. Siamo tutti in un silenzio carico di rispetto, mentre i miei occhi si muovono intorno e catturano lo sguardo smarrito della moglie persi nel nulla in quel momento. Forse, mentre il marito fa vedere le foto, si perde nel ricordo della sua terra, forse ripercorre le strade e i vicoli bruciati dal sole mentre scambiava due chiacchiere con la sua gente, nella sua lingua, prima dell’arrivo dei talebani. Il suo sguardo è perso, ma si accorge dei miei occhi che si sono fermati nei suoi e mi sorride con una tristezza che mi fa stringere le labbra - anche per me i pensieri si fermano in quel momento. La stanza diventa sempre più piccola davanti a questi corpi che si muovono lentamente e sembrano aver lasciato l’anima da un’altra parte, solo Selma continua a muoversi allegra e spensierata tanto da rovesciare la tazza piena di chai di Mariaserena. In un attimo si ravviva la situazione: Selma  comincia a piangere tra le braccia della madre, Amir la sgrida tanto in silenzio che sembra quasi non averle detto nulla, l’unica che sa cosa fare è la bambina dal vestito rosso che va in cucina a prendere qualcosa per la sua sorellina Selma con l’intento di farla calmare. Ora aspettano di ricevere notizie sull’ennesima richiesta di asilo politico, che già hanno chiesto 3 volte, per 2 volte è stato negato loro, e tutti speriamo che questa volta possa andare bene.  
È ora di andare. Ci alziamo, li salutiamo affettuosamente, Elia si scambia delle pacche sulla spalla con Amir mentre noi donne abbracciamo sua moglie, indossiamo le scarpe, usciamo e la piccola Selma salta in braccio ad Elona che la stringe affettuosamente. La bimba dal vestito rosso, invece, rimane sulla porta, ci sorride timida e composta. Ci incamminiamo mentre tutti ci diciamo l’un l’altro quanto speriamo che arrivi una risposta positiva per i documenti di questa famiglia così carica di dolore. Cammino un po' più indietro dei miei compagni mentre ho ancora fisso nella mente quel vestito rosso indossato dalla dignità, che uomini senza anima hanno violentato una sera nel campo profughi di Mavrovouni. Ho ripercorso in un silenzio orante tutti i movimenti lenti delle mani di Amir, mani che avrebbero voluto forse fare tanto male a chi ha strappato la purezza alla sua bambina, lo sguardo della sua mamma perso non nel nulla, ma nel dolore assordante che taglia dentro, e lei, il piccolo fiore dai folti capelli neri e dagli occhi grandi e neri come olive nel suo elegantissimo vestito di tulle rosso a pois che ci sorride.
Arriviamo a casa e ognuno va destra e a sinistra, i nostri corpi si muovono come sempre e vanno in ogni direzione, le nostre mani fanno qualsiasi cosa ci sia da fare, io forse mando alcuni messaggi. Tutto si muove, eppure allo stesso tempo tutto sembra fermo per chi non è considerato degno di un essere umano, tutto si muove tranne i sogni di chi è arrivato in una terra che promette libertà e democrazia, in uno stato che promette Diritti Umani a tutti tranne ai rifugiati e ai loro figli che non possono frequentare la scuola.
Sì, tutto si muove, e ci muoviamo anche noi, andando tutti i giorni a trovare chi per un attimo si sente considerato e amato. Ci togliamo le scarpe entrando nelle loro case; questo gesto non ha più più lo scopo di non sporcare i tappeti che ci fanno anche da mensa, noi calpestiamo il sacro che non è ornato da oro e incenso ma da chiodi che penetrano l’anima in attesa del giorno della resurrezione, della libertà.

Mina