Gazzella

Non c’era il sole, eppure la mia pelle era tutta sudata, non c’era il vento, eppure la terra arrivava nei miei occhi che mescolandosi col sudore mi bruciavano da morire.
Non c’era una montagna da scalare, eppure ero stanca ad ogni passo e il fiatone faceva un’eco profonda dentro di me.
Mi facevano male le mani come quando si scava nella terra per cercare qualcosa che non puoi assolutamente perdere, e scavi, scavi a mani nude fin quando non ti sanguinano le dita.
Non riesco ancora a rendermi conto se si tratti di un sogno, di un incubo o se sono in uno stato di incoscienza, che ecco un’onda pazzesca si infrange contro il gommone, e le urla dei compagni di viaggio mi riportano alla realtà.
Gli occhi bruciano per la salsedine del mare, e la mia pelle è bagnata dagli spruzzi delle onde che arrivano fin sopra al gommone… ho paura di non farcela.
Chi sono tutte queste persone appiccicate a me e io a loro?
L’odore della nostra carne mischiata l’uno con l’altra, respiri, sguardi terrorizzati che non si fermano a cercare compassione con nessuno dei compagni di viaggio, perché non c’è tempo per provare nulla, e non ci rendiamo nemmeno conto della reale paura che abbiamo di non farcela e di morire annegati in questo mare.

Le lacrime sono autonome, scendono da sole e vanno dove vogliono, bagnano il mio viso sfigurato dal dolore di chi ha lasciato tutto, anche ciò che non aveva più, tutto quello che è andato distrutto sotto le bombe di una guerra di cui nessuno si ricorda, di cui il mondo non parla più perché forse diventa abitudine che sia un arabo, un siriano a perdere la vita.
Ma anche quel nulla era mio, e solo ora mi rendo conto di quanto mi facesse sentire al sicuro una voce che parlava la mia stessa lingua.
Ripenso ai colori del mercato, le urla dei venditori tra le bancarelle, il profumo delle spezie e il gusto del gelato affogato nei pistacchi.
Ricordo le voci delle signore anziane che raccontavano di storie fantastiche, fra tutte la più bella raccontava di una donna che diventava una gazzella…
Ricordo quando da bambina vedevo le donne raccogliere i loro lunghi capelli neri nelle hijab, e guardavo estasiata truccarsi gli occhi col kajal nero, le linee erano perfette, sottili, come per definire i confini fra quelli che si sarebbero trasformati da lì a poco in occhi di una Gazzella, che conserva tutta la sua grazia anche quando deve correre veloce per salvarsi dalle fauci del leone.
In mezzo a tanto incanto arrivavano le voci rozze degli uomini che tornavano dai campi, i rigoli di sudore scendevano dalla fronte di Karim che gli bagnavano il poshu.
Amira prepara il tè da offrire all’anziano Karim e ai suoi amici, intanto le altre donne sono rimaste nell’altra stanza a cucinare.
Sento ancora come allora il profumo del booza, mahshi, hummus, ma proprio non resisto quando penso all’awameh mi sembra di sentire ancora il miele misto alla cannella che scivolano in gola.
Amara terra mia, dolce come il miele e velenosa come il fiele, cosa ti hanno fatto?
Non esiste in tutto il mondo una culla come la tua, capace di far addormentare i neonati, di far giocare i bambini, di far sognare i ragazzi, da far innamorare chiunque veniva a visitarti.
I profumi, i colori, i suoni, le leggende, la storia, la fede per cristiani e musulmani, tu possiedi tutto come una donna  con tutto il vigore della sua gioventù nonostante tu sia eterna.
Terra mia, ti hanno violentata senza pietà, non hanno avuto rispetto per anni di storia che paupulava dalle pietre delle tue case e delle tue piazze.
Mi sento stordita, ma cosa è successo? Cosa non ha funzionato? Perché questo posto non mi vuole? Quale maledizione antica hanno rovesciato su di me?
Eppure, ricordo ancora la mia mamma che mi affidava ad Allah prima di partire per questo lungo viaggio, le sue mani stringevano le mie fino a quell’ultimo addio.
Come potrò dirle che in Europa non mi vogliono, come potrò spiegarle che questa terra libera che promette diritti a tutti non riconosce il mio diritto ad essere trattata con dignità, non mi crederà mai quando le dirò che questo Stato non vuole proteggermi dalla guerra da dove sono scappata, e mi nega i documenti che dicono che sono una persona libera.
E’ come se le mie mani fossero costrette a scavare ancora nella terra per cercare qualcosa che per me sembra impossibile avere.
Guardare il mare non è più la stessa cosa, in ogni goccia che lo rende immenso ci sono le urla soffocate di chi non ce l’ha fatta, in ogni onda ci sono sogni infranti, forse solo l’azzurro che traccia il confine con il cielo in lontananza riesce a darmi ancora un po' di speranza, come un kajal che segna confini sottili tra la disperazione di chi si arrende e non crede più in niente, e la speranza che forse ce la possiamo ancora fare.
L’altra sera ero con i miei amici siriani e marocchini nella piazza di Mitilene; uno di loro mi invita ad andare a mangiare tutti insieme, arriviamo in una casa che da fuori mi sembrava un castello, ma dentro in realtà era divisa da tante piccole stanze.
Quella dove eravamo noi aveva un solo lettino, un fornello e un frigorifero piccolissimo, però quanto era bella; forse eravamo in 20 tutti insieme seduti sui tappeti per terra, proprio come si stava a casa mia.
La signora che vive in quel piccolo castello fatato ha due occhi profondi misti a dolore e tenerezza, mentre si guarda intorno e vede la sua casa piena di tante vite, tanti giovani.
C’erano anche dei ragazzi italiani che sembravano felici di stare lì con noi, me li ricordo tutti, ma una di loro non la dimenticherò mai perché nei suoi occhi si vede il suo cuore.
Per tutta la sera non ho fatto altro che guardare quella signora con tante rughe sul viso e sulle mani.
La sua dolcezza mi ha fatto ricordare il sapore del miele, e nella sua posa ho rivisto la grazia mai persa della gazzella che sa di dover correre veloce per non cadere nelle fauci del leone.
Come fa ad avere sempre qualcosa da dare a chi la va a trovare? Dove trova, una donna come lei, il coraggio e la forza di essere così mamma di tutti?
Lei ha il profumo del tabacco arrotolato pronto per essere fumato, del tè appena versato per essere bevuto ed è buona come il pane caldo appena sfornato.
Quando sento dentro di sprofondare nel pozzo della solitudine e della nostalgia, vado da lei perché anche quando non parla, ti guarda, ti sente, e ti sorride dolcemente.
E ricordo esattamente ciò che pensavo da bambina quando ascoltavo le storie fantastiche raccontate dalle signore anziane del villaggio, e fra tutte la più bella era quella della donna che diventa una gazzella.
Resto ancora un po' in silenzio, quando mi rendo conto che quelle storie di villaggio non erano poi tutto frutto di immaginazione e di fantasia.
Con un soprassalto nel mio cuore e lo stupore dei miei occhi, mi convinco che alla fine della storia la gazzella si trasforma e diventa una donna.

M.