Tu penses qu’on peut vivre une vie?

“Tu penses qu’on peut vivre une vie?” (Pensi che possiamo vivere una vita?).
Serge ce lo chiede così, guardando una di noi dritta negli occhi.
Sotto l’ombra del berretto, gli occhi lucidi ma fermi rimbalzano poi da un viso all’altro.
Siamo fuori dal campo di Ritsona, dove l’aria è resa pesante dal caldo e dall’odore di plastica bruciata.
Le fabbriche sono infatti i soli edifici che circondano il campo, situato in un’area industriale a 70 km a nord di Atene e a 20 km da Chalkida, il centro abitato più vicino.
In Grecia l’isolamento geografico è un tassello fondamentale della segregazione sistematica delle persone in movimento.
La chiusura del campo di Eleonas e del progetto Estia (Operazione Colomba - Persone tra le persone) avevano già causato l’allontanamento dalle comunità urbane, dunque dalle scuole, dagli ospedali, dalle opportunità lavorative e dalle reti di associazioni.
Oggi, per un numero crescente di persone, la quotidianità è il campo: un contenitore grigio circondato dal filo spinato, dove situazioni giuridiche differenti e comunità diverse sono costrette a condividere un’attesa perenne e inutilmente violenta.
Negli ultimi mesi il campo di Ritsona ha lentamente subito dei mutamenti: un muro in più copre ora completamente la vista delle persone e dei container che si trovano al suo interno, i tornelli e le postazioni di controllo, in fila ordinata, troneggiano presso l’ingresso secondario, ora chiuso con un catenaccio dotato di lucchetto.


Il servizio di trasporti, dopo due mesi di sospensione, è stato ripristinato in forma ridotta: del collegamento settimanale per Chalkida e dei due per Atene possono usufruire solo coloro che dimostrino di avere un appuntamento in un ospedale pubblico.
Da circa una settimana alle persone viene chiesto di mostrare il documento sia per entrare che per uscire dal campo.
Questa lenta ma pervasiva erosione di spazio e libertà di persone che, è bene ricordarlo, non si trovano in stato di detenzione, è parte della strategia di conversione del campo di Ritsona in un Closed Controlled Access Center (CCAC).
Si tratta di un nuovo modello di campo sperimentato già sulle isole di Samos e Kos, dove l’aumento della sorveglianza, di fatto, giustifica sempre maggiori restrizioni della libertà personale.
Queste strutture semi-detentive rafforzano le barriere, sia fisiche che non, tra il campo e il mondo esterno: “siamo dentro ad un cerchio dove non passa l’informazione”, ci racconta Roman.
Le notizie che penetrano i muri di cemento sono infatti poche e confuse.
La stessa conversione in CCAC, come tante altre informazioni, non è stata annunciata dalle parole di un atto ufficiale, ma da un catenaccio in più o dalla modifica del nome della rete wifi in “CCAC Ritsona”.
Anche le associazioni sono state spinte da tempo fuori dal campo, così che non è possibile né raccontare le vite a metà di chi lo vive, né offrire uno spazio per respirare.
Dietro ai muri, intanto, le comunità di provenienza tendono a separarsi, e mentre i cancelli si chiudono, la pressione psicologica ristagna e aumenta, fino ad esplodere in frequenti episodi di violenza.
Così, l’imbarbarimento indotto, paradossalmente, diviene un motivo in più per giustificare un clima sempre più securitario.
I singoli cercano di sopravvivere, si chiudono nel loro cerchio di dolore e aspettano per anni di poter vivere.
Questo cerchio è forse quello che più stringe la gola, pur essendo invisibile, perché isola ogni persona, anche nell’ambito della stessa famiglia e della stessa comunità.
Lo vediamo in tutta la sua durezza quando incontriamo Mohammad, che ci dice di non aver parlato con la famiglia per due giorni interi; ce lo spiega con chiarezza Roman, quando ci racconta che dentro il campo aiutarsi è molto difficile, perché ciascuno porta con sé la propria sofferenza, al contempo identica e diversa da quella degli altri.
Quando ci si incontra, il rischio è quello di gettare l’angoscia l’uno sulle spalle dell’altro, generando solo una somma di malesseri senza che ciò permetta a nessuno di sentirsi meglio.
“Dentro il campo”, ci racconta “le persone trascorrono molto tempo a guardare il telefono, oppure dormendo”: c’è necessità di estraniarsi da una situazione di alienazione che dura anni, senza avere la forma di una vita.
Di fronte a tutto ciò risuona la domanda di Serge: pensi che si possa avere una vita?
Nel silenzio, l’unica risposta è il ronzìo del drone sopra le nostre teste.

C. e D.