Il tempo sospeso

Caro Papa Francesco,

Qualche giorno fa sei venuto al campo di Mavrovouni per incontrarci, per porgerci la tua mano e per guardarci negli occhi.
Sei venuto unicamente per noi, per dare voce a chi, come me, non ce l’ha. Io ero lì, a pochi passi da te.

Non ho avuto la possibilità di parlarti e di raccontarti la mia storia, per questo motivo colgo l’occasione di farlo in questa lettera.

Mi chiamo Djahra, sono una ragazza afghana, di etnia hazara, ho 26 anni.
Vivo con la mia famiglia nel campo profughi di Mavrovouni, a Lesbo, in un container, più sicuro di una tenda, ma che ci costringe comunque in una condizione poco dignitosa e insostenibile nel tempo.

Prima di riuscire ad approdare sulle coste greche siamo stati respinti dalla guardia costiera greca verso la Turchia per undici volte. Sì, per ben undici volte.
Incredibile la loro perseveranza nell’infrangere i nostri Diritti e i nostri sogni.

Sono passati solo cinque mesi dal nostro arrivo, nonostante ciò, abbiamo ricevuto già due rigetti alla nostra richiesta di asilo, per tale motivo abbiamo fatto ricorso e adesso siamo in attesa dell’ennesima risposta.
È angosciante vivere in questo limbo, dove il tempo è sospeso e il futuro è ignoto.
Sono molto preoccupata per le mie sorti e quelle della mia famiglia.
Mio padre soffre di dolori alla schiena, che lo obbligano a camminare con l’ausilio del bastone, avrebbe bisogno di operarsi ma, nella nostra condizione, l’accesso alle cure mediche è più difficile.

Ho due fratelli gemelli di sedici anni, che non hanno Diritto ad un’istruzione, perché chi come noi è in attesa che gli venga riconosciuta la protezione internazionale, non può frequentare le scuole pubbliche. Malgrado le norme Europee riconoscono il Diritto a ogni bambino di accedere all’istruzione, a noi questo Diritto è negato.

Io per fortuna sono riuscita a concludere il mio percorso di studi prima di fuggire dall'Afghanistan, mi sono laureata in Fisica, l’ho studiata non per il fatto che l’amassi particolarmente ma perché era la facoltà più vicina al mio paesino.
Il mio sogno è quello di diventare professoressa. Però il tempo adesso è bloccato, non ho la possibilità di lavorare, di studiare, di vivere una vita normale e dignitosa.
È una grave ingiustizia quella che stanno compiendo nei miei confronti e nei confronti di tutte le altre persone nella mia stessa condizione. Inoltre non possiamo tornare nel nostro Paese, sarebbe troppo pericoloso sia per me che per la mia famiglia.

Ho aspettato la fine per confidarti il mio dolore più profondo, troppo difficile da esprimere a parole. Un dolore che non ho mai accettato ma con il quale sto imparando a convivere.
Si tratta di mio fratello, Fahim.
Fahim è morto in Afghanistan sotto il fuoco dei talebani. È morto perché ha manifestato il suo dissenso contro il loro regime, contro le violazioni dei Diritti Umani e della libertà. È morto non soltanto per il popolo afghano, è morto per tutti noi.
Riparlarne vuol dire riaprire quella ferita che non guarirà mai, ma sento profondamente anche il bisogno di farla uscir fuori, per rendere giustizia a mio fratello, che giustizia non avrà mai.

Ora sono veramente stanca.
Stanca di vedere i miei familiari soffrire, stanca di vedere continuamente porte chiuse in faccia, stanca di aspettare, di non essere artefice del mio destino.

Con affetto,
Djahra



Il principio di non-refoulement, sancito dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status di rifugiato e ribadito dall’art. 3 della Convenzione europea dei Diritti dell’uomo (CEDU) e dall’art. 19, par. 2 della Carta dei Diritti fondamentali (CDF), si traduce nell’obbligo di non trasferimento, diretto o indiretto, di un rifugiato o di un richiedente asilo, in un luogo nel quale rischia di essere perseguitato, o di essere sottoposto a tortura o ad altre pene e trattamenti inumani o degradanti, a causa della sua razza, della sua religione, della sua nazionalità, della sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o delle sue opinioni politiche.
Nell’ottobre 2015 il numero di arrivi irregolari dalla Turchia alle isole Greche superò il mezzo milione. Di conseguenza, crebbe la pressione politica da parte dell’Unione Europea sulla Turchia per fermare il flusso di traversate irregolari. Il risultato iniziale fu quello di avviare un piano d’azione congiunto UE-Turchia, adottato il 29 novembre dello stesso anno, in virtù del quale la Turchia si impegnava a intensificare gli sforzi dei suoi apparati statali per frenare le partenze irregolari verso l’UE e a cooperare con gli Stati membri dell’UE per applicare gli accordi di riammissione vigenti e per rimpatriare nei Paesi d’origine i soggetti considerati non bisognosi di protezione internazionale. Per parte sua, l’UE prometteva di stanziare 3 miliardi di euro che il governo turco avrebbe dovuto destinare a una più efficace assistenza umanitaria dei rifugiati siriani in Turchia.
La cooperazione tra Turchia e UE in materia di migrazione è culminata in una dichiarazione, comunemente chiamata “accordo UE-Turchia”, il cui punto cruciale era costituito dal principio secondo cui ogni migrante – compresi i richiedenti asilo – giunto irregolarmente sulle isole greche, sarebbe stato restituito alla Turchia e, correlativamente, gli Stati membri dell’UE avrebbero accolto un rifugiato siriano dalla Turchia per ogni siriano respinto dalle isole greche: il cosiddetto meccanismo “one to one”.
L’accordo si fondava sul postulato che la Turchia fosse un Paese sicuro per i rifugiati e i richiedenti asilo e impegnava il governo turco ad adottare tutte le misure necessarie per impedire l’apertura di nuove rotte marittime o terrestri verso l’UE e a cooperare con l’UE al fine di migliorare le condizioni umanitarie in Siria.
Dal giugno 2021, in conseguenza all’accordo UE-Turchia, lo Stato greco considera terzo Paese sicuro la Turchia anche per afghani, somali, pakistani e bengalesi, oltre che per i siriani.