Da poco tornato dai campi profughi siriani in Libano

Libano/Siria

Arrivo in Libano il 5 Ottobre. Dopo una notte a Beirut, mi trasferisco subito a nord, a pochi chilometri dal confine con la Siria, nella regione dell'Akkar. A nord, secondo stime dell'UNHCR, vivono circa 300.000 profughi siriani. In Libano, sempre secondo la stessa fonte, dovrebbero vivere circa un milione e mezzo di profughi.

Vivrò per un mese e mezzo in una tenda, in un campo profughi di siriani nel paese di Khreibet ej Jindi, e in un garage, in un quartiere abitato da profughi siriani e libanesi musulmani di Tel Abbas, con i volontari di Operazione Colomba. In Libano i volontari si occupano di proteggere i profughi siriani tramite un complesso lavoro di presenza, mediazione e creazione di rete sociale con la comunità libanese in cui sono inseriti.
Il governo libanese non ha accettato la costituzione di campi profughi formali; la causa di questa mancata volontà di accoglienza sta nella storia del Libano, una storia costellata di guerre e tensioni interne tra le diverse appartenenze che compongono questo paese, e nell'attuale fragilissima stabilità che il paese sta vivendo. Una stabilità raggiunta dopo anni di guerra civile tra sunniti, sciiti, alawiti e cristiani, che la numerosa presenza di profughi dalla guerra in Siria (tra loro stessi divisi in diverse fazioni e appartenenze) rischia di frantumare. Questo secondo la visione del governo e di molti sostenitori dello status quo.
I profughi, allora, si sono auto-organizzati. Alcuni di loro vivono in case in affitto, altri hanno affittato dei garage, altri ancora vivono in piccolissimi campi di tende non riconosciuti dal governo o dalle municipalità, ma riconosciuti dall'UNHCR. Ogni campo e' caratterizzato da dimensioni molto piccole. Ciò che e' piccolo, infatti, può passare inosservato. Si va da un minimo di 4 tende ad un massimo di 400. Ma la maggior parte dei campi che ho visitato non superava la quindicina di tende.

Quasi tutti sognano di andarsene dal Libano. Il sogno diventa realtà per pochissimi. I siriani hanno infatti un passaporto che dà libero accesso a pochi paesi, tra i quali la Turchia e il Libano. Raggiungere l'Europa in sicurezza e' una possibilità concessa ad un numero limitatissimo, valutato in base a criteri di vulnerabilità talmente stringenti, che la porta d'accesso e' veramente molto piccola. Rimane il mare, come unica strada. Sul service (un piccolo pulmino che fa da taxi collettivo ed e' parte integrante del trasporto pubblico libanese) da Tripoli a Tel Abbas, un profugo siriano mi racconta che dopo due mesi avrebbe intrapreso il viaggio per mare verso l'Italia. Gli dico di non farlo, il viaggio e' molto pericoloso, forse non ne vale poi così tanto la pena, visto che anche in Europa la situazione non e' per niente rosea, in un contesto di povertà e razzismo crescente. Mi dice che ci proverà lo stesso. Ha bisogno di futuro, ha bisogno di speranza. In Libano diventa sempre più complicato soddisfare questi bisogni.
Anche i disegni dei bambini rispecchiano questo desiderio che riaffiora da un un subconscio collettivo: molti dei loro disegni rappresentano una nave nel mare su cui viaggiano tutti i componenti della famiglia. La nave batte bandiera siriana o la bandiera dell'esercito libero, a rappresentare quella nostalgia che sempre ritorna nei discorsi dei siriani che andiamo a visitare. La patria perduta e' un paradiso.
“Un paradiso in cui forse torneremo. Un paradiso in cui potremo offrirvi del cibo. Un paradiso in cui forse potremo tornare insieme. Un paradiso in cui potrò sposarmi. Un paradiso in cui il cibo costa poco, le sigarette costano poco, la terra c'è per tutti e in abbondanza, il pane non manca. Tutti si aiutano a vicenda, un paradiso in cui avevo molte macchine, molte case e od ogni casa aveva molti piani, un paradiso in cui avevo molti alberi, molti campi...”.
Il futuro e' immaginato solo come un viaggio. Il passato come un paradiso perduto. Il presente non esiste nella maggior parte dei racconti.  
La moglie di N. ha deciso di tornare a Damasco, in Siria, con i figli, piuttosto di continuare a vivere in un campo profughi in Libano. Il marito non può tornare. Rischierebbe di essere arrestato, imprigionato e torturato dal governo siriano. Ma la moglie non ce la faceva più a vivere in una tenda che si riempie d'acqua ogni volta che piove, in cui non c'è spazio, soprattutto se hai quattro figli, in cui i vicini sono talmente vicini che tutti sanno tutto di tutti, perché si sente tutto: un campo dove si litiga per qualsiasi cosa e dove il controllo sociale e' altissimo.

Non e' assolutamente facile essere un profugo siriano in Libano. Soprattutto nell'Akkar, la regione più povera del Libano, dove manca lavoro per tutti e i libanesi stessi faticano a vivere dignitosamente.
Per esempio nella municipalità in cui viviamo ai profughi siriani e' imposto un coprifuoco. Quando fa buio, per questioni di sicurezza, ovvero per evitare che civili libanesi attacchino siriani, ai siriani e' impedito di uscire dai campi, dai garage o dagli appartamenti in cui vivono.
I siriani, poi, abituati ad una sanità pubblica più o meno garantita in Siria, si trovano in difficoltà estrema in un paese in cui la sanità e' ad impianto privato. Un'operazione al cuore ha costi proibitivi per quasi la totalità dei profughi, ma anche solo la semplice sutura di una ferita può mettere in seria difficoltà una famiglia di profughi. La famiglia di un bambino di tre anni, feritosi al piede con un ago, ha dovuto pagare 400 dollari il piccolo intervento di sutura. Aldilà delle operazioni, c'è una difficoltà ancora più seria nell'accesso ai medicinali.  
Con l'arrivo dell'inverno, inoltre, i costi aumentano. Chi vive nei campi deve rifornirsi di nylon che coprano le strutture in legno e deve fare i lavori di riparazioni delle strutture prima che il peso dell'acqua o della neve mettano a rischio la tenda. Una ONG si occupa di distribuire a titolo gratuito questi materiali, ma e' una sola ONG in tutto il nord del Libano. Una sola ONG, quindi, per trecentomila rifugiati. Le consegne, infatti, sono molto lente.
Anche gli aiuti che l'UNHCR può fornire hanno subito nel tempo dei tagli. Ci sono sempre meno soldi per sempre più gente.

Tutto  questo in un contesto di violenza crescente. Come scrivono i volontari di Operazione Colomba: «Dallo scorso venerdì 24 ottobre assistiamo a violenti scontri a Tripoli (la città più a nord del Libano, ndr) tra l'esercito libanese e gruppi armati affiliati al Fronte Al-Nusra e all'ISIS. I combattimenti si sono svolti in diverse zone della città, interi quartieri sono stati evacuati e le violenze si sono spostate anche nella zona nord del Paese, dove noi viviamo. Dopo tre giorni di scontri si contano 42 morti (23 miliziani, 11 soldati, 8 civili) e 150 feriti. Sono già 300 gli arrestati, sia libanesi che siriani sospettati di appoggiare i gruppi armati. Continuano i raid dell'esercito nei campi profughi siriani nella zona a nord di Tripoli, alla ricerca dei miliziani fuggiti dalla città.
Da settimane l'esercito libanese è vittima di attacchi mirati in cui hanno perso la vita diversi soldati. In risposta l'esercito ha compiuto numerosi raid ed arresti nei campi di profughi siriani. Duranti tali raid, secondo le testimonianze raccolte, ci sono stati atti di violenza da parte dell'esercito. Molti arresti sono apparentemente avvenuti senza specifiche accuse. In diverse occasioni anche civili libanesi armati hanno minacciato dei campi e dato fuoco alle tende. I casi di sgomberi forzati di campi si sono moltiplicati. Libanesi e siriani hanno paura di una nuova guerra».