Dalle frontiere macedoni...

Libano/Siria

Non è facile poter parlare con i migranti durante i brevi spostamenti insieme, dove cammino e fuga si mescolano.
Non è facile fermarli e far loro delle domande mentre tentanto di aspettare i loro parenti rimasti indietro, bloccati dai soldati, sotto la pioggia, o mentre cercano di passare una qualche frontiera.
Ti sembra quasi di dover interferire con il raggiungimento di un sogno, la fuga veloce da un incubo. Si rimane impietriti di fronte la folla brulicante e inzuppata che ti passa accanto.

Spingono per salire sugli autobus il più in fretta possibile. C'è chi si perde e si ritrova, c'è chi si aspetta a distanza di chilometri; ci sono donne con bambini in braccio che tentano di scorgere i loro mariti tra migliaia di uomini.
Ci sono bambini infreddoliti che piangono, c'è chi invece canta e cammina come ad una gita scolastica.  
Siriani, afghani, pakistani, africani, iracheni, iraniani. C'è chi viaggia da anni, mesi, giorni.
Molti hanno in comune la stessa destinazione: Germania.
C'è chi ha già dei parenti ad aspettarli e c'è chi non ha nessuno.
Quando le strade si svuotano trovi tutti gli oggetti che non riusciranno più a portarsi dietro per il troppo peso, preferendo dell'acqua e del cibo ad un paio di scarpe, coperte, maglie, e persino mazzi di chiavi. Inutili oggetti in questo loro cammino.
L'uomo di 62 anni a cui mi avvicino, si è fermato per mangiare seduto su di una panchina.
Sta affrontando questa fuga con sua moglie, donna energica con un gran sorriso.
Comprende l'inglese ma non lo parla come il marito.
In passato hanno viaggiato tanto; sono stati in Germania, Italia, Ex-Yugoslavia, e tanti altri Paesi.
Si ferma a mangiare quel byrek come se fosse la cosa più buona che abbia masticato negli ultimi giorni, o mesi (e io che di byrek ne ho mangiati tanti invece lo reputo tra i peggiori).
Per tutto il tempo che rimarrà lì seduto mangiando e chiacchierando non si toglierà mai lo zaino, quasi come una conchiglia per la chiocciola. Ed è proprio quello che rimane della loro casa, tutto contenuto dentro uno zainetto, da cui intravedo solo una stuoia per dormire. Ci presentiamo.
Gli chiedo da che città venga, e mi risponde di essere scappato da una Damasco distrutta. Per la precisione abitavano nella periferia. Anche la loro casa è stata distrutta. Faceva il cuoco ma quando è iniziata la guerra ha smesso di lavorare. Mi chiede se ho un foglio e una penna. Glieli porgo e mi disegna il profilo della Siria dove indica Damasco e le zone controllate dalle forze di Assad e dall'esercito libero.
Vorrebbe spiegarmi molto di più ma dice che il suo inglese è molto sterile e non riesce ad andare in profondità. Hanno avuto grande difficoltà ad attraversare la Siria e il confine con la Turchia; descrive il pericoloso viaggio in barca verso la Grecia, dell'acqua fino al petto per raggiungere la costa e degli spari in aria dell'esercito per farli allontanare. In quell'imbarcazione c'erano 15 bambini che urlavano e piangevano.
“Noi non scappiamo solo dalla guerra ma anche dalla morte del futuro, lì non c'è speranza. Stavamo morendo di fame”.

Ridiamo insieme del mio accento palestinese. Non sono la sola a far domande. Anche lui mi chiede cosa ho studiato e cosa ne penso di questa tragedia, indicandomi il flusso di migranti che sta per raggiungere la Serbia. Vorrei chiedergli scusa, implorare il suo perdono per essere stati partecipi con armi a questa guerra. Ma lui lo sa già, ha intuito la mia risposta: “È anche colpa nostra” gli dico.
Gli chiedo quale destinazione abbiano, e mi risponde l'Olanda. In passato è stato anche in Germania ma forse l'Olanda è meglio per chi sa l'inglese. Ma non ha nessun parente o amico da raggiungere. Mi chiede quale Paese sia meglio. Che cosa rispondergli? In ogni caso spero che trovi accoglienza.
Gli chiedo scusa se lo sto riempiendo di domande mentre mangia, ma non sembra infastidito, anzi è desideroso di parlare, fare domande e ascoltare. Mi confida una grande verità: “se prendi le cartine geografiche di 100 anni fa noti che c'è una gran bella differenza, intere popolazioni si sono spostate, e sarà così anche fra 100 o 50 anni...le cartine saranno ancora diverse”.
Occorre saper accogliere, condividere, cambiare.
Chiede se potrà fare volontariato una volta arrivato ad una qualche destinazione. È sbalorditivo, non credo di aver capito bene. Dice che non vuole sentirsi inutile, ha 62 anni ma ha ancora tante energie, e vuole avere degli obiettivi nella vita.
Poi ogni tanto alza gli occhi verso le persone in fila per il cibo, e grida in arabo “uno ad uno, c'è da mangiare per tutti!”, calmando un po' le persone che si stanno spingendo per accaparrarsi la propria razione. Mi guarda e con aria un po' triste mi dice: “sai, in questo viaggio ho scoperto che il comportamento umano può diventare selvaggio”. Tento di rassicurarlo dicendogli che la paura dell'ignoto talvolta fa agire in modo disumano e non sapendo se a qualche chilometro c'è ancora del cibo è normale volersene stipare un po'.
Con la coda dell'occhio vedo un migrante che riporta dei byrek nel punto di distribuzione, un grande esempio di solidarietà.
Mi chiede com'è la situazione in Italia, rispetto ai profughi che arrivano. Gli racconto un po' dei barconi che arrivano dall'Africa e dei problemi che ci sono al confine nord con Francia e Austria, e si dispera al solo sentire parlare di acqua e barconi.
È traumatizzato. Inoltre è anche consapevole della fobia che scatterà in Europa rispetto ai Musulmani.
L'unica soluzione che hanno reputato giusta è stata andarsene da un Paese in guerra da più di quattro anni.
Ognuno sceglie di lottare con i mezzi che ha: anche salvare se stessi e desiderare di non sentire più il rumore delle bombe ogni giorno è resistenza.
Durante le chiacchiere mi offre una sigaretta ma gli dico che non fumo.
Lui e sua moglie hanno aumentato il consumo di sigarette durante questo viaggio; mi confida che gli danno adrenalina per stare sveglio e non pensare.
Dopo questo piccolo riposo è giunta l'ora di ripartire.
Ci siamo regalati un sorriso in un mare di passi.


El.