La condanna del mare

Libano/Siria

Ormai abbiamo iniziato a considerare i naufragi in mare come un qualcosa a cui siamo abituati. Una settimana i morti sono 50, un'altra 20, quella dopo magari 100. Numeri a cui difficilmente riusciamo a dare un riscontro nella nostra normale vita. Ieri, al ritorno nel campo, arriva la notizia dell'ennesimo naufragio, una famiglia a cui molte persone erano legate da parentela e amicizia, è rimasta vittima del mare.

Il padre, dopo aver messo in salvo la famiglia, non ce l'ha fatta.
Ecco che dietro a quelle astratte cifre si materializza davanti a me la foto di un volto esanime, la storia di un'amicizia, il dolore per una sorella rimasta vedova, i rimorsi per non aver scoraggiato una soluzione così carica di rischi.
La brutalità della guerra, la frustrazione per uno Stato che accetta di ospitarti privandoti di tutti i diritti, possono portare una comune famiglia ad affidare il loro destino alle condizioni del mare e a trafficanti senza scrupoli.
Di fronte a tutto questo mi sento impotente, mi sento in colpa per essere membro di quella parte di mondo che non riesce ad accordarsi per accogliere quei profughi che sono fortunati ad arrivare, che esclude e respinge in Turchia quella stessa famiglia vittima della tragedia.
Se torneremo a riflettere sulle singole vite umane, tutte cariche di legami, storie e dignità, potremo allora iniziare ad analizzare il problema con coerenza e potremo evitare che un giorno queste tragedie possano riaccadere.

N.