La strada di casa

Libano/Siria

Fatima alterna sorrisi a sguardi rassegnati, mentre parliamo nella sua piccola struttura in cemento e plastica ai bordi della strada, da fuori arrivano grida divertite di bambini e rumore di camion che passano carichi di materiale. In quella che è diventata la sua seconda casa ci sono pochi oggetti essenziali per la vita quotidiana, materassini per dormire per terra, vestiti dei bambini, teglie e oggetti da cucina.

Parla con una voce calma e profonda, nonostante narri di storie durissime al solo ascolto. Come deve essere stato vivere simili inferni sulla Terra? Ci sarà qualcuno che né risponderà?
Fatima per me rappresenta le donne siriane, forti e determinate a difendere la vita che hanno contribuito a creare. La guerra è soprattutto maschile, è un impeto di violenza che tutto spazza via e non si ferma davanti a nessuno, neanche ai bambini. La vita invece ha un suono femminile, perché è profondo, è radicale, è protettivo; dalla finestra della stanza in cui siamo filtrano dei raggi di sole. Sono raggi di sole delicati, che si sentono appena sulla pelle e hanno la consistenza del profumo dei fiori. Queste per la mia esperienza sono le immagini più rappresentative delle donne siriane, in generale delle donne del Medio Oriente, del Mediterraneo. Una presenza costante e rassicurante, che non arretra neanche davanti alla barbarie assoluta. Giorno dopo giorno tesse la sua tela e ricostruisce ciò che altri demoliscono con la retorica della forza. Fatima insieme a sua cognata Ibaa ha imparato il valore dell’attesa in questi cinque anni di guerra, attesa di qualcosa, attesa di qualcuno a cui aveva imparato a dare il nome di marito, il volto di colui che aveva amato e che gli aveva dato dei figli. Hussama il marito di Fatima era stato arrestato in casa dai militari del regime di Assad, presso la loro casa a Homs. Non ne ha più avuto notizie, ha girato caserme e posti di polizia con la sua foto, nessuno gli dava risposte, ha atteso sei mesi prima di conoscere la verità in un ospedale di Damasco. Suo marito era morto sotto le torture, mi mostra una fotografia di quando era in vita, un uomo dall’aspetto forte e con una barba marrone sulle guance, sembrava avere uno sguardo buono. Nelle fotografie successive che dipana dal cellulare vediamo lo stesso volto spento, con ferite sulla faccia ed ecchimosi. Il volto che aveva amato e che adesso non risponde più, ci dice di avere trovato quella fotografia su internet, una delle centinaia che sono state fatte circolare dagli attivisti siriani per cercare di fare avere informazioni ai parenti degli scomparsi nelle prigioni del regime.
Vedo questa foto e mi chiedo quanto tempo ci sarà voluto per riuscire a ritrovare una stabilità minima, a mettere insieme braccia e gambe per continuare a camminare. Siamo abituati a vedere gli eroi come delle persone che vivono ai margini della società, senza macchia, senza paura. Qui in questo angolo di Libano al confine con la Siria mi vengono poste davanti altre verità. Verità che parlano di eroismi quotidiani, di chi lotta ogni giorno per arrivare alla fine del giorno senza rassegnarsi all’ineluttabile, di chi in Siria scava tra le macerie per portare soccorso ai feriti, mettendo a rischio la sua stessa vita per cercare di salvarne altre.
In Europa abbiamo talmente tanta spregiudicatezza da pensare di potere guardare il mondo solo attraverso le nostre lenti, quelle che ci indicano un solo soggetto malvagio, l’Isis, e tutti gli altri sono attori alleati nella lotta per la sua sconfitta finale. Le popolazioni che vivono in queste regioni possono essere al massimo vittime o carnefici: non viene contemplata dai nostri analisti occidentali, dalla gente che ha studiato per esprimere sentenze, il fatto che questi esseri umani siano in grado di prendere in mano il loro destino.
“Lo sai?”, mi disse una volta un amico siriano in Italia, “Lo sai cosa è voluto dire per noi provare a fare una rivoluzione? Per capirlo guarda le persone in marcia nei Balcani questo inverno, ci sono stati episodi in cui i pullman messi a disposizione dalle autorità non erano sufficienti a portare tutti da una parte all’altra del Paese”. “Allora sai cosa hanno fatto? Sono scesi tutti e hanno camminato insieme per non lasciare nessuno indietro. Questa è l’essenza di quello che è successo, non potevano permettere che questo movimento popolare vincesse e cambiasse la società, perché sarebbe stato un effetto domino che sarebbe arrivato fino in Europa. Nulla sarebbe stato più come prima”.
Nella tenda si alza un leggero velo di fumo, non pesante come quando sono presenti tutti gli uomini, ma comunque presente. Siamo nel mezzo di una delle lezioni che un volontario di Operazione Colomba tiene nel campo la sera, per preparare le famiglie al viaggio in Italia. Viaggeranno tramite il corridoio umanitario creato da Operazione Colomba, Comunità di Sant’Egidio e Tavola Valdese per permettere alle prime cento famiglie siriane fuggite dalla follia della guerra di arrivare in Italia in sicurezza senza cercare la morte nel Mar Egeo sui gommoni.
Ogni sera osservo i volti di questi studenti e di queste studentesse, alle ragazze in particolare brillano gli occhi: ridono e scherzano tra di loro, si prendono in giro, si respira una aria di leggerezza e di generale rilassamento. Come se la vita volesse lentamente riprendere i suoi spazi, inesorabilmente. Le voci di queste donne sono splendide, rompono la monotonia della vita del campo, dove alcuni giorni sembrano non passare mai. Il loro impegno è impressionante e tutti siamo concordi sul fatto che in pochi mesi saranno in grado di comunicare in italiano, anche meglio dei loro mariti. Sono persone abituate a lottare e a farsi spazio, ad essere portatrici di una speranza.
Badia viene considerata la “mamma” di tutto il campo profughi di Tel Abbas, ha quasi sessant’anni ed è stata abituata fin da giovane a lavorare molto: “La mia famiglia aveva una casa di terra e fango in campagna, fuori Homs, sono cresciuta in questo ambiente libero”. Ha perso il marito prima della guerra, molti anni fa, e ha cresciuto nove tra figli e figlie da sola, lavorando al mercato e coltivando la terra. “E’ stata molto dura” ammette, un lampo di nostalgia le brilla negli occhi prima di lasciare il posto al suo avvolgente sorriso tradizionale. Ha una personalità molto forte e cerca sempre di fare in modo che le persone intorno a lei si sentano a proprio agio. Fuma molto e ama bere tè e caffè a tutte le ore del giorno e della notte. “Quando eravamo sotto l’assedio di Homs, bombardati dalle truppe di Bashar el Assad, vivevamo tutto il giorno sotto terra e uscivamo di notte solo per andare a portare aiuto a chi era rimasto nelle case. Mi muovevo furtiva tra i posti di blocco. Nel nostro rifugio non riuscivamo a portare molti generi di prima necessità se non alcune materie prime per cucinare come farina e olio. Ci mettemmo a lavorare e preparammo delle frittelle in quantità tali da sfamare tutte le persone all’interno del nostro rifugio antiaereo. In altri posti le persone facevano la fame e a volte morivano, una delle cose di cui vado più orgogliosa è che nel nostro rifugio non è mai morto di fame nessuno. Mi metteva una gran pena vedere la situazione in cui erano i bambini e non potevo starmene con le mani in mano”.
Kadija vive nel campo a fianco al nostro e quando è arrivata in Libano per fuggire dalla Siria Rabia aveva appena un anno e mezzo. Era considerato uno dei bambini più attivi della zona, urlava, correva e scherzava. Dopo qualche mese Rabia è stato colpito da una grave forma di meningite che non riuscendo a curare si è trasformata in disagio cronico. Oggi vivono tutti insieme in due spazi sotto la loro tenda molto stretti, c’è giusto lo spazio per i materassini, Rabia a causa del problema che ha colpito il sistema nervoso e muscolare, non riesce praticamente a muoversi e la maggioranza delle volte comunica attraverso gli occhi. Sono occhi profondi quelli di Rabia, una volontaria per descrivere quello che si prova guardandoli ha usato queste parole: “Quando lui piange è una delle situazioni più tristi e commoventi che ci siano, ma quando sorride illumina il mondo”. La forza nella debolezza. Sua madre, Kadija, ha il portamento di un guerriero, manda avanti la sua famiglia praticamente da sola insieme all’anziana madre e lavora vendendo dolci in un negozio della città. Per questioni difficili il marito non le è praticamente di nessun aiuto e il peso di tutto questo dramma ricade sulle sue spalle. Ogni volta che la incontriamo tuttavia è sorridente, di un sorriso consapevole della durezza della vita. Ci chiede come stiamo noi volontari, come va la vita del campo. Anche lei come tanti altri ha perso tutto quello che aveva e la violenza della guerra a distanza le ha portato via anche la salute di uno dei suoi figli, eppure resiste.
Ricordo che un pomeriggio, a Chieri, vicino a Torino con un amico osservavamo dei fiori che nascevano dal cemento su di un muro, e ci chiedevamo come era possibile, non c’era chiaramente nessuno spazio per quei fiori per trovare respiro, eppure nascevano, e si espandevano tutto intorno.