Apparteniamo tutti allo stesso respiro

Libano/Siria - (Foto di Mattia Civico)

Foto di Mattia CivicoStanotte c’era il mare in tempesta nella mia città.
L’eco di un rombo continuo dalle strade che fiancheggiano il mare giunge fino a casa mia, al mio letto, e sveglia il sonno. Lo riconosco questo fragore: sono le onde spinte dal vento forte.
E ogni volta che il tempo è così qui, su questa sponda di Mediterraneo, di notte, io penso all’altra sponda, alle partenze di chi fugge dalla guerra, dalla violenza, dalla povertà. Capirò mai cosa può esserci nel cuore di un uomo quando sta per mettere la sua vita e quella dei suoi bambini dentro una barca e affidarle alla notte che nasconde il viaggio e amplifica la paura?

E’ mattina.
Mi arriva un messaggio da un volontario di Operazione Colomba con cui ho condiviso tanti momenti intensi: “Appena atterrati a Roma”. E una foto. Due foto. Tre…!
Volti che riconosco.
Diventati volti amici in un tempo così breve.
Sono i profughi del campo libanese di Tel Abbas. Ce l’hanno fatta. Loro sono stati sottratti ai pericoli del mare di questa notte, sono arrivati in Italia. Sono al sicuro. Già la sicurezza.
Quanta retorica su questa parola, quante menzogne per nascondere una semplice verità: questo corridoio umanitario è il frutto di mesi di paziente lavoro di un gruppo di volontari, reali operatori di pace. Mentre assistiamo allo scempio dell’intelligenza perpetrato nei dibattiti pubblici sulla chiusura delle frontiere, sul "pericolo" (per noi) dei flussi migratori, c'è chi in silenzio lavora e dimostra nei fatti che si possono salvare vite umane, sottrarle alla duplice disperata sorte di fuggire dalla guerra in Siria per finire sepolti vivi nella polvere desolata di un campo profughi dove non hai più passato e non hai più futuro, o consegnare l'ultima speranza di vita a un viaggio in mare che non profuma più di salsedine ma di nuovo olocausto...
Mi chiedo dov’è finita la nostra anima e per ritrovarla devo tornare a guardare le foto che mi sono appena arrivate. Quanta commozione, emozione… faccio fatica a trovare parole che sappiano trasportare fuori dal cuore ciò che sto provando.
I loro occhi ripresi dallo scatto è come se ancora mi raccontassero dei sogni semplici e grandi di chi ha perso tutto, tranne la dignità. Ricominciare a vivere, aggrappati al “sogno italiano” di un corridoio umanitario. Sogno inventato e nutrito lì dove sembrava che non c’era niente da inventare e nutrire: nel terreno fangoso di un campo profughi dove non avere più nulla non mi è parsa la peggiore delle cose. La peggiore è non essere più nulla. Fino a quando qualcuno non arriva e ti dice: condividerò con te questo nulla. E il nulla diventa qualcosa.
Io sono stata solo sei giorni con loro, dei due anni che Operazione Colomba è lì a condividere questo nulla. Un mese fa. Così pochi ma abbastanza per incontrare il dolore, le ferite e la speranza.
Tutte insieme. Sì, perché l’umanità che soffre la guerra non può più separare il dolore dalla speranza. Sembra un paradosso, ma ho imparato attraverso i loro sguardi, i loro gesti di accoglienza e di cura che la vita sa vincere sempre proprio in chi è oppresso dalla violenza.
Quel tempo breve vissuto al campo si è dilatato dentro di me ed è ancora tutto lì. Ripercorro tutte le storie che ho incontrato e che il mio cuore, come fosse una penna, continua a scrivere muto sui fogli dell’anima per non perderne le tracce.
Una si chiama “Le lacrime sanno cantare” e racconta del suonatore di Oud. Una sera nella tenda di Badia, quando una melodia dolcissima iniziò a uscire dalle corde di quello strumento antico e magico e toccò le corde dei cuori di tutti. Seduti in cerchio, noi volontari, insieme ai profughi, stavamo per partecipare a un concerto insolito e meraviglioso. Piano piano, uno alla volta, ognuno di loro iniziò a unirsi alle note del suonatore.
Non ci fu bisogno di farsi tradurre le parole per comprendere che si cantava della propria terra, della disperata fuga via dalla guerra, del sogno di tornare a casa, a una casa che non esiste più. Un groppo mi salì in gola e non feci in tempo ad accorgermi di me, che scorrendo lo sguardo intorno, vedevo scendere lacrime sui volti delle donne, dei bambini, più nascoste, ma non meno lucenti, quelle che giravano negli occhi degli uomini. Non seppi se il suono usciva dalla voce, dalle lacrime o dalle corde dell’oud. Quel che ancora so è che la musica li stava curando, ci stava curando tutti, da quel male che sarebbe sennò dilaniante. La nostalgia. Il dolore del non poter fare ritorno.
Un’altra storia si chiama “kullu barra” - Tutti fuori, e narra della filastrocca giocosa che ripetevano i bambini per canzonare i volontari che provavano a far valere regole sugli orari di visita alla nostra tenda.
Un’altra storia si chiama “emat tayara ”? Quando l’aereo? Ed è fatta delle insistenti domande su quando e come e in quanti… si sarebbe partiti per l’Italia. Narra dell’ansia, dietro ogni domanda, che questo sogno non si avveri, quanto della fede nell’attesa di quel momento. E questa storia ha un capitolo che si sta scrivendo proprio oggi, insieme a loro, che sono in viaggio per i luoghi di accoglienza previsti dal corridoio umanitario.
E poi c’è “Come stai …e tu?” in cui avrei provato a narrare gli infiniti splendidi colori delle serate a “scuola di italiano”, tenuta dai volontari, trasformatisi in maestri con tanto di bacchetta e lavagna, delle risate insieme e dell’impegno serio di questi scolaretti adulti, uomini e donne, con i loro quaderni tra le mani ad annotare le frasi per scambiare le prime parole nella nuova vita, le frasi che li portavano già a un passo dal loro sogno italiano.
E ancora c’è Badia, “La mamma di tutti” al campo. Nove figli cresciuti da sola, affrontando fatiche e stenti, e che mai si sarebbe aspettata, ormai nonna di non saprò mai quanti nipoti, di dover attraversare il confine del suo Paese inseguita dalla guerra. Mi parla delle due figlie, mogli di palestinesi che vivono nel campo profughi di Chatila. Quello della strage si, proprio quello. E dell’avventura di altre due. La prima, sfuggita all’assedio del regime di Assad da poco anche lei al campo, e la seconda intrappolata nei territori sotto controllo dell’Isis. Non ha sue notizie da quattro mesi. E questo nessuno può sapere come si fa a sopportarlo.
Quante storie sono ancora chiuse nel mio cuore nonostante i miei soli sei giorni a Tel Abbas.
L’ultima si chiama Kulna fi awa sawa. Apparteniamo tutti allo stesso respiro. Un antico detto arabo che questa gente semplice e grandiosa mi ha dimostrato cosa significhi senza bisogno di traduzioni. E’ la storia che mi legherà per sempre a questa gente come fosse mia famiglia. Entrai nella tenda di Abu Rabìa con la notizia che dovevo ritornare d’urgenza a casa. Sentii un clima di festa mentre io ero in apprensione. Si festeggiava la notizia del tanto atteso appuntamento al consolato italiano di Beirut per espletare le ultime pratiche per la partenza. Lasciare il campo. Sembrava inverosimile il loro lasciare il campo dopo 4 anni di tormenti. Sembrava inverosimile il mio dover andar via all’improvviso. Io apprendo la loro bella notizia. Loro apprendono la mia brutta notizia. Per un attimo il loro vociare tace, i loro sorrisi si impietriscono. Mi sento male a interrompere quel momento di gioia così prezioso. Ogni ostacolo alla lingua araba sparisce perché mi arriva in un altro linguaggio il loro messaggio. Dai volti, dalle mani che mi toccano, dagli occhi su di me dolci come carezze.
Il loro dolore, quelle ferite di cui avevo sentito qualche racconto nei giorni precedenti, si era messo ai piedi del mio. Il mio ai loro piedi. Hanno sofferto con me e per me. In quel momento di gioia pura per loro. Hanno sussurrato preghiere. Hishallaker: Affida tutto nelle mani di Dio, mi ripetevano. Mi hanno sommerso di abbracci  e accompagnato con sorrisi e occhi pieni d'amore...
Non c'è niente da fare: il dolore, quando trova anime pure come solo quelle delle vittime innocenti della guerra e della violenza sanno essere, fa crescere quel senso di umanità, quello spazio di umana condivisione in cui ogni dolore e ogni gioia è la stessa, unica.
Li ho sentiti respirare con me il dolore e io non ho smesso di respirare la loro gioia di quel momento.

Kulna fi awa sawa. Apparteniamo tutti allo stesso respiro. Io ho provato cosa significa.

Silvana