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Libano/Siria

G. corre: di giorno, di sera e di notte. Una tra le bambine più attive ed intelligenti del campo profughi ai confini dell’universo dove vive. L’universo che ha perso ha il nome della sua patria: Siria, la sua città natale è divenuta famosa alle cronache come città martire della guerra: Aleppo.

G. non chiede mai, si avvicina con fare discreto alle persone di cui è incuriosita, sorride e si tiene a distanza. Almeno le prime volte, poi diventa difficile non legarsi e la soggezione cede il passo alla sfacciataggine.

Ci sono tante cose che non riesce a comprendere pienamente del mondo degli adulti, mondo dentro al quale è stata precipitata molto in fretta quattro anni fa, quando ha dovuto abbandonare la sua casa sotto il rumore assordante e tetro delle bombe che cadevano. Prima ad un quartiere di distanza, poi a un isolato, poi nelle case e negli edifici vicini. Nulla sembrava potere intaccare la semplice serenità familiare della sua famiglia prima di quegli anni di violenza: il suo dolce papà lavorava in una ditta di costruzioni e sua mamma era una insegnante di disegno. I suoi cugini e i suoi zii abitavano nella sua stessa area, non troppo distanti da loro, erano abituati a condividere tutto: cibo, spazi e giochi. Non sembra vero, guardandosi indietro, che quei giorni siano davvero esistiti.

G. ricorda quei giorni con l’immagine di un sole caldo, ma che non brucia, colori chiari: il bianco, l’azzurro, il giallo, il verde; gli stessi che oggi predilige per colorare i suoi disegni. Gli occhi dei bambini nascondono delle grandi verità, se si riesce ad osservare il mondo con quello che sentono, ne nascerebbero degli stimoli fenomenali. G. si rende conto che qualcosa di brutto è accaduto e sta ancora succedendo nel suo Paese di origine, sarebbe impossibile in fondo non rendersene conto. Sa che ogni passo che lei compie in questa terra d’esilio è un passo in memoria di tanti suoi coetanei che non ce l’hanno fatta, che non sono potuti uscire in tempo dalla Siria e che ora corrono su prati e colline sconosciute alla maggioranza degli esseri umani.

Se lo è chiesta spesso G., ripensando ai colori di casa che non ci sono più, se lo è chiesto fortemente dove andassero i bambini quando lasciano questo mondo. Ancora non è riuscita a darsi una risposta, tanti adulti indicano il cielo e invocano una misericordia per i martiri. Forse il cielo può davvero essere così ampio da ospitarli tutti, oppure chiunque si trovi ai piani alti ha pensato qualcosa di speciale per i suoi piccoli confratelli, qualcosa che nessuno ha mai immaginato. Non conosce ancora la parola “giustizia” dal punto di vista lessicale, ma ne percepisce il suo bisogno, lo necessita ogni ora che passa a fissare le nuvole all’orizzonte. Nuvole che vanno e che vengono, mentre tutto intorno a lei scorre in un torrente di attimi.

Oggi la giornata cammina particolarmente lenta per lei, si chiede dove siano finiti tutti i suoi compagni abituali di gioco, da quando è arrivata nel campo ha sempre avuto amici più piccoli, nessuno che avesse lontanamente i suoi dieci anni, forse qualcuno nel campo affianco, ma quelli in fondo chi li vede mai sotto questo cielo.

Quando era in Siria aveva tante amiche e vicine con cui svagarsi, tutto andava avanti e la sua quotidianità era sorridente. Non ricorda esattamente il momento in cui il cielo si è aperto su di loro, ed ha iniziato a vomitare fuoco ed esplosioni. L’inizio di tutto, più che ricordarlo lo sente: dentro, nel proprio petto, come un vuoto grande che risucchia tutto intorno a sé. Una paura antica eppure sempre nuova: sogna spesso di cadere o di trovarsi in una strada senza uscita, un sentimento di angoscia si impossessa di alcuni suoi sogni. Le succede di svegliarsi, nel cuore della notte, di stropicciarsi gli occhi e di guardarsi intorno, cercando figure rassicuranti e trovandole. Suo papà e i suoi fratelli sono ancora al solito posto nella tenda, sdraiati uno di fianco all’altro lungo una fila di materassi sottili, sua sorella piccola A. respira pesantemente vicino a lei e il ventilatore continua il suo soffio incessante e refrigeratore. Sembra proprio che tutto proceda normalmente, in questo strano mondo che ha imparato a chiamare casa.

Da qualche giorno al campo è arrivata una nuova famiglia, un loro giovane membro è una bambina della sua età: si chiama S. e ci ha messo un po’ per inquadrarla, col suo fare burbero e agitato. S. sembra non avere paura di niente, neanche dei ragazzi più grandi, di cui G. a volte sente la soggezione e lo sguardo severo su di lei. Si sono incontrate sotto il tetto della scuola di legno, uno dei pochi posti dove sia possibile disegnare e provare a fare finta di avere una vita normale. L’inizio del loro incontro è stato composto di frasi abbastanza circostanziate: come ti chiami, da dove vieni, dove stanno costruendo la tua nuova tenda. Poi lentamente ha imparato a fidarsi ed aprirsi a questa amica sconosciuta, ha scoperto che il suo papà faceva il muratore e che ora ha una brutta malattia per cui dovrebbe curarsi ma che non ha i soldi per farlo. Deve essere brutto, pensa a volte tra sé e sé G., avere la propria vita legata a dei pezzi di carta. Non è giusto, si ripete, che S. debba rischiare di rimanere senza papà a causa di una guerra che non ha scelto e di una condizione di povertà in cui sono caduti dopo una vita di fatiche e di impegno.

Nelle giornate particolarmente afose S. la porta sul tetto della casa in costruzione davanti al loro campo e da sopra guardano il panorama e ridono delle persone che passano, compresi i volontari italiani con il loro strano accento. I momenti in cui sta con lei la riportano in parte ai colori vivaci che vedeva quando viveva ad Aleppo, prima che il cielo si aprisse su di loro. Corre, ride e gioca a calcio con i maschi,  mentre nelle tende gli adulti discutono del futuro di una guerra che sembra non avere mai fine. A G. non piace parlare o sentir parlare della guerra, non le piace guardare dentro quel vuoto che risucchia tutte le emozioni e i ricordi belli. Le bastano le notizie che ogni tanto il suo papà lascia filtrare dalla bocca socchiusa, come quella riguardo la morte di un suo cugino colpito dal fuoco di un cecchino mentre si trovava in macchina con un amico. Ci sono notizie a cui non vuole lasciare troppo spazio, per non permettere che se lo prendano tutto, per impedire di essere risucchiata in quel luogo senza ritorno da cui sono scappati quattro anni fa a bordo di un autobus sgangherato.

Ora è viva: questo in fondo è quello che conta più di tutto, certo la situazione generale potrebbe essere un poco migliore; potrebbero avere elettricità tutto il giorno per esempio, le piacerebbe anche che la sua mamma non piangesse quando sente certe parole dette al telefono dal suo Paese di origine. Eppure quando ripensa alla strada lunga e pericolosa che hanno dovuto fare da Aleppo per raggiungere il Libano si rende conto di essere stata fortunata, con quel mezzo sgangherato carico di anime impaurite che scheggiava tra le città sotto assedio o sotto i bombardamenti. In fondo a tutto il dolore passato ora è qui, in questo angolo di universo senza senso, ma non è da sola: S. ogni mattina la aspetta sotto il tetto della scuola di legno.

Ogni mattina la attende con quel suo sorriso scaltro e carico di aspettative: “Eccoti finalmente, dai vieni devo assolutamente farti vedere una cosa”.