La corsa...

La morte di Ayyed ha lasciato dell'amaro nelle nostre bocche, un boccone troppo grosso anche per i suoi familiari e amici, che di rospi in questi anni ne hanno mandati giù fin troppi.
Ayyed era un ragazzo che viveva in un garage con la sua famiglia, insieme sono scappati dalla Siria per non avere più paura della guerra ma qui si sono ritrovati a dover correre per sopravvivere, a rincorrere la dignità rubata.

Alcuni di noi lo conoscevano già da tempo, altri ci hanno passato addirittura il capodanno, altri ancora l'hanno solamente intravisto, ma Ayyed c'era e, nonostante vivesse come tutti i profughi una vita da fantasma fatta di spazi stretti e sacrifici, anche lui stava rincorrendo la dignità che gli era stata tolta.
La famiglia di Ayyed, come tutti i profughi, era in piena corsa e noi con loro per cercare di rendere più agevole il terreno, meno dura la fatica o per lo meno per faticare insieme.
Ayyed correva in modo diverso per via della sua sindrome di down e per una malattia al sangue che lo obbligava a cercare aiuto per trovare dei donatori ogni 3 mesi, ma con lui correvano i suoi genitori che con occhio attento e cuore aperto stavano al suo passo.
Venerdì notte Ayyed non si è sentito bene, è stato rimbalzato da un ospedale all'altro per 24 ore.
Nessun medico ha ascoltato le grida della madre che si faceva portavoce del dolore del proprio figlio. Nessuno ha corso con loro, nessuno ha ascoltato i bisogni di Ayyed perché la sua famiglia non aveva soldi per pagare nemmeno un semplice controllo, perché un debito di 70.000 lire libanesi (45 euro circa) ha bloccato ogni aiuto possibile, perché un ragazzo siriano non viene curato come un qualsiasi altro essere umano.
Ma è risaputo che la corsa è questione di minuti, secondi, e infatti Ayyed é morto.
È morto a casa mentre aspettava che qualcuno valutasse se le sue cure potessero essere urgenti o meno, se fosse esente da pagamenti, insomma se avesse diritto ad un briciolo di dignità.
Ayyed é morto tra le braccia di una madre ormai stanca di correre, davanti agli occhi di un padre che ha visto troppe ingiustizie.
E tutti qui, noi volontari compresi, ci chiediamo come sia possibile continuare a rimanere indifferenti davanti a questa ingiustizia, ma è per questo che anche quando il fiato è corto e le gambe si fanno pesanti continuiamo ad andare al ritmo di chi cerca la dignità.