La tenda

Da sempre la tenda è la casa lontano da casa. Può essere un modo avventuroso e romantico di vivere una vacanza, l'ebrezza di un viaggio ignoto, senza programma né orologio; rifugio di emergenza di chi abita le strade delle nostre indaffarate città; case temporanee di chi è in fuga, in cerca di un futuro migliore. La tenda, quindi, come un laboratorio di umanità, proprio come quella che è stata allestita qui a Chiari: un luogo d'incontro in cui c'è un fuoco che non si spegne.

Mai avrei immaginato di incontrare questo stesso fuoco nelle tende che ho visitato in Libano. È il fuoco di chi non si arrende al dolore, alla violenza e all'ingiustizia e che lotta per difendere la propria umanità.
Potrei parlare per ore e comunque non riuscire ad esprimere quello che intendo, quindi ho deciso di raccontarvi una storia: la storia di Abu A.
Abu A. vive in un campo di fragole, casa e bottega diremmo noi, la sua casa è una tenda costruita tra le serre e come spesso capita l’affitto del terreno su cui vive viene scalato dallo stipendio già fin troppo esiguo, ma va bene, “almeno siamo vivi”, mi dice sorridendo solo con le labbra. I suoi occhi ne hanno viste troppe: le bombe, la propria casa che collassa, le persone care che ad una ad una muoiono o scompaiono durante i rastrellamenti, la fuga con tutta la famiglia. “Bismillah, fa che arriviamo sani e salvi!”.
In Libano la vita è dura, soprattutto se hai una bambina malata da accudire: la sanità non è garantita perché i siriani non hanno diritto di esistere in questo Paese.
Il giorno in cui ho conosciuto Abu A. ci ha chiesto di aiutarlo a trovare sua figlia, da settimane non sa più dove sia e le ultime notizie da parte sua le ha avute dalla Turchia. “Che ci faceva in Turchia?” chiedo. “Il nonno non poteva più vederla soffrire e ha deciso di portarla in Europa, ma dopo qualche mese hanno chiuso le frontiere”.
Da quel giorno ho perso le sue tracce, finché un pomeriggio lo vedo avvicinarsi alla nostra tenda, ha di nuovo bisogno di aiuto: “Un mio amico ha perso le tende l’altra notte, sono bruciate a causa di un corto circuito, suo figlio ha 14 anni ed è rimasto gravemente ustionato, ma all’ospedale non l’hanno accettato perché non avevano i soldi per pagare le cure”.
Ci prendiamo cura anche del giovane M., ma questa volta non voglio perdere di nuovo le tracce di Abu A. e accetto il suo invito ad andare a prendere un tè, raggiungo la sua tenda sperduta in mezzo alle fragole, una delle sue sorelle mi fa assaggiare la marmellata più buona che abbia mai mangiato “l’ho fatta io, con queste fragole”.
Abu A. mi prende un braccio e mi dice: “Vieni, voglio farti conoscere un’altra persona”. Si tratta di M., è arrivato in Libano un mese fa ed è scappato da Raqqa, ci ha messo quasi un mese ad attraversare la Siria, per metà del viaggio attraversando zone controllate dal Daesh (Isis); ha attraversato campi minati, viaggiato di notte, mentito ai posti di blocco, pagato mazzette. In Libano ci è arrivato solo con i vestiti che aveva indosso, lui sua moglie e due figlie. Hanno dormito per settimane all’addiaccio, riparandosi alla bell'e meglio dalla pioggia torrenziale di quei giorni, finché un giorno Abu A. non li ha visti e li ha invitati da lui. Hanno vissuto insieme qualche giorno, il tempo di rendere abitabile una tendina destinata agli attrezzi da lavoro. “Non c’è ancora il riscaldamento, ma se serve possono venire da me e appena M. si riprenderà cercheremo un lavoro, anche adesso è dura, l’inverno è duro. Io non ho niente ma non potevo lasciare un fratello per strada, haram!”
Non è questa la luce che dovremmo sempre tenere accesa? La naturalezza nel vedere nell’altro un fratello, abitando con lui le sue periferie, farle nostre, perché sono periferie dell’umanità tutta.

Grazie per aver ascoltato la storia di Abu A. raccontatela anche voi alle persone che incontrate, fatela vostra, alimenterà la vostra luce come sta alimentando la mia.
P.