Un film degno di... aiuto

Tra i ragazzi accompagnati al centro dei Diritti Umani di Beirut, oggi c'era A., ragazzo di trentasei anni proveniente da Talkalakh, un paesino al confine tra Libano e Siria.

Lui, traduttore di inglese, si siede di fianco a me sul service di ritorno ed inizia a raccontarmi la sua storia.
“Sono dovuto scappare dalla Siria e sono finito nel posto peggiore nel momento peggiore. Sono scappato dopo essere stato detenuto due volte; prima per cinque giorni e poi per trentasei”

E tutti sanno cosa significa essere detenuto in un Paese come la Siria. “Sono stato torturato continuamente ed indiscriminatamente; non venivano fatte eccezioni, tutti subivamo le stesse pene. Sono stato appeso per i piedi per ore e i soldati, quelli del regime, ci lasciavano andare poco prima di morire, in modo da potersi divertire un po’ anche nei giorni successivi. Hanno usato l’elettroshock, mi hanno menato, pestato e gettato l’acqua in gola per farmi affogare. Infine ci facevano lasciare le impronte digitali su diversi fogli bianchi, che avrebbero riempito poi loro con dichiarazioni di affiliazione terroristica, di sostegno agli oppositori del regime e simili. Una volta tornato a casa ho cercato più volte il suicidio, assumendo medicinali o tentando di impiccarmi; fortunatamente non ho mai avuto il coraggio finale di farlo.”
Per la prima volta, i film americani di spionaggio e di azione sono diventati realtà, una realtà assolutamente non piacevole. Il mio amico traduttore vedeva le smorfie sulla mia faccia che seguivano alle sue parole, la voglia di ascoltarlo ma allo stesso tempo di allontanare quelle pene. Lui stesso, più di una volta, è stato sul punto di piangere; tutt’ora porta i segni delle torture sul suo corpo, e probabilmente sempre lo accompagneranno: una spalla lussata, un piede maciullato, ossa facciali parzialmente deformate e tanti segni di percussioni su tutto il corpo. E’ lui a dirmi “ti giuro che mi sveglio la notte per il dolore al piede” e ancora “quando abbraccio mio cugino o mio nipote piango per il dolore che mi provoca il movimento”. Sogna di andarsene, perché qui la sua mobilità è molto ristretta a causa di diverse minacce che continua a ricevere, non ha possibilità di lavoro e di miglioramento sociale.
Il suo sogno è quello di andare via da qui, possibilmente verso un Paese anglofono in modo da non dover perdere tempo ad imparare una nuova lingua ed iniziare il prima possibile a lavorare.
Chiede di non essere segnalato a nessuna organizzazione perché non crede nelle istituzioni libanesi e neanche in quelle europee.
Io non posso far altro che accompagnarlo in questo desiderio.

Federico