Storie

Quando ti trovi a vivere in un campo profughi, e ci vivi nel senso che condividi con queste persone momenti di vita quotidiana, sguardi, sorrisi, bicchieri di tè, lacrime... ciò che ti entra più dentro sono inevitabilmente le loro storie.
Storie di persone come potrei essere io, come potresti essere tu, e di come la guerra ha stravolto le loro vite.
Storie mutilate, di fughe, notti insonni e braccia infreddolite.
Sono storie come quella di Abu H. e la sua famiglia che, fuggiti dalle bombe di Aleppo, come altre migliaia di siriani, si sono affidati al traffico di esseri umani per raggiungere il Libano, la “terra promessa”, dove hanno poi trovato solo sfruttamento e la fredda solitudine della strada.
Storie che nascondono una tristezza infinita, raccontate da labbra tremolanti, le quali portano ancora sulla pelle i segni e l'indelebile sapore della sofferenza.

Storie di un popolo ferito, nell'orgoglio e nella carne, dal viso scarnificato e sfigurato, tanto snaturato che anche solo un accenno di sorriso sembra oggi impossibile.
Urla soffocate di un popolo oppresso, a cui sono state tagliate le gambe nel momento in cui cercava di muovere i primi passi, senza più catene, senza più bavagli.
Sono storie come quella di Mariam, fuggita dalle violenze di Idlib, che però non hanno risparmiato suo marito, torturato a morte dalle milizie filo-governative.
Sono storie di chi è fuggito, chi ha dovuto lasciare le proprie case, il proprio porto sicuro, nel buio della notte per non farsi prendere dai soldati, riponendo speranze e averi nella spietata avidità dei contrabbandieri e vive oggi nella precarietà di una tenda malconcia e di un'esistenza incerta.
E chissà se oggi esistono ancora quelle case, quei quartieri, quelle città, o è stato tutto trasformato dalle esplosioni in un accrocco di macerie inermi, senza vita.
Sono i lamenti di una Siria flagellata da un conflitto troppo complesso per poterne cogliere tutte le dinamiche, protratto da una dinastia che il potere lo ha preso con la violenza e con la violenza intende conservarlo.
Orrori di quartieri assediati e affamati fino alla morte, di ospedali bombardati e di civili uccisi con armi illegali, spesso per la sola colpa di vivere nella zona “sbagliata” della città.
Tutto questo mentre a occidente si stava a guardare, mentre i Paesi che si fanno tanto difensori dei diritti umani dimostravano una cecità spietata, portando avanti sottobanco calcoli economici e politici e contribuendo (in molti caso in modo diretto) ad aggiungere violenza alla violenza, sangue al sangue, perché in fondo, diciamocelo, nessun intervento è necessario a meno che questo non porti un sostanziale profitto.
Sono storie come quella di M., un “disertore” come lo definirebbero in Siria, un ragazzo coraggioso, sarebbe più appropriato.
Si, perché M. a soli vent'anni si è trovato costretto a combattere per un regime che non amava ne supportava, in prima linea, perché “chi paga può starsene nelle retrovie”, mentre chi non ha i soldi, come lui, va a combattere al fronte, carne fresca mandata al macello.
M. ha visto il peggio della guerra, ha visto notti e giorni senza sonno, ha visto la paura negli occhi dei suoi commilitoni, occhi che come specchi riflettevano il suo stesso sguardo sgomento, ha visto cadere sopra la sua testa le bombe del suo stesso regime, fautore di quella guerra tanto ingiusta quanto truculenta. Ha visto la morte, l'ha toccata con mano quando un razzo ha spazzato via il suo intero plotone, ma lui è sopravvissuto ed ha deciso che quella guerra tanto ingiusta non era la sua guerra, che non si poteva morire così.
E' fuggito, ha lasciato la sua Siria, la sua famiglia, sapendo che non avrebbe potuto far più ritorno. Sono storie di migliaia di adolescenti come M. che vengono arruolati non appena dimostrano abbastanza forza per imbracciare un fucile, di chi forse era ed è troppo giovane per morire, bambini, ragazzi, vittime di un conflitto fra fazioni che ideologicamente parlano tanti dialetti diversi, ma che utilizzano un unico linguaggio per comunicare, quello del fucile.

Ma ciò che colpisce di più è che queste sono le stesse storie di chi nonostante i vissuti dolorosi, nonostante la guerra abbia biecamente spazzato via ogni cosa, e abbia costretto ad una condizione incerta all'interno di Paesi che hanno spesso mostrato il loro lato peggiore, rispondendo con odio e discriminazione alle braccia che chiedevano solamente un briciolo d'umanità, trova in tutto questo un'immensa voglia di vita, di determinazione che cancella la rassegnazione e di speranza di tornare un giorno, in un futuro meno avverso, in Siria.
Sono storie come quella di W., che sotto le bombe di Assad ha perso un figlio e un fratello, portando il ricordo di quei terribili momenti sempre con sé in una ferita che lo tormenterà a vita, ma che affronta ogni nuovo giorno con il sorriso stampato sul volto e che oggi vede nei Corridoi Umanitari una luce in fondo al tunnel, la possibilità di lasciarsi alle spalle un'esistenza disumana passata in una tenda e di costruire un futuro meno difficile in Europa, per lui e per i suoi figli.
O sono storie come quella di Z., che ha perso un figlio vicino a Raqqa quando i curdi Rojava tanto acclamati dall'Occidente lo hanno costretto ad indossare l'uniforme e mandato a morire “da martire” al fronte, ma che tuttavia dimostra un'energia, una vitalità, una forza di spirito che è impossibile non ammirare.

Queste sono le storie di tutti e di nessuno.
Di una persona sola e di un popolo intero.
Sono le storie di milioni di rifugiati che per sfuggire alle crudeltà di una guerra sconsiderata e di un regime senza scrupoli, si trovano oggi a fronteggiare una vita che non dovrebbe essere tale, non PUÓ essere tale, non può essere normalizzata, non ci si può “abituare” a vivere così.
Non è vita quella che si passa in campi improvvisati, dove le condizioni igienico-sanitarie sono minime, i servizi altrettanto precari, per non dire inesistenti, dove ci si ammala con niente e si muore altrettanto facilmente.
Dove si vive la giornata, e domani “chissà se ci sarà cibo per sfamarci e soldi per pagarci le medicine”.
Dove non si hanno diritti né tutele, e nessuno che se ne preoccupi.
Dove si è costretti ad affidarsi alle fauci fameliche di usurai e strozzini per lavorare o semplicemente avere un tetto sulla propria testa.
E non è neppure vita quella di migliaia di profughi in costante fuga, rimbalzati da Paesi incapaci di assicurare dignità ed integrazione a queste persone, che spesso finiscono per affidarsi ai trafficanti di uomini, nell'effimera speranza di trovare un paradiso in qualche Stato occidentale, dove però le prospettive per i migranti sono oggi tutt'altro che ineffabili.

Queste sono le storie di un popolo che ha un sogno, poter far ritorno un giorno in una Siria di pace, senza politici corrotti né fazioni armate.
Ma nuove pagine possono essere aggiunte a queste storie, che non devono essere identiche alle precedenti, non possono esserlo.
Nonostante la speranza rischi di avvicinarsi paurosamente all'utopia, vista l'ottusità diffusa dimostrata dal mondo intero, non si può permettere che l'annichilamento della dignità umana continui a segnare il vissuto di milioni di persone, siano questi Siriani, Nigeriani, Yemeniti o qualunque altro popolo del mondo che sia capace oggi di raccontare solo storie di terrore, odio e violenza.
Storie mutilate, proprio come quelle che ci raccontano, fra un bicchiere di tè e l'altro, dai profughi del campo di Tel Abbas.
Per loro e per noi.
C'è bisogno d'umanità per poter scrivere pagine fresche, diverse, pagine di speranza, che rovescino un prologo doloroso e portino ad un finale meno infame, ad una conclusione dignitosa, memore degli orrori ed errori del passato.
La storia, le loro storie, vanno cambiate.
Per loro.
Per noi.
M.