Mancavano i fiori

“E i fiori mi mancavano mi mancavano
con quel loro sbirciare dal punto
d’oltretomba.”
(Mariangela Gualtieri,
Senza polvere senza peso)


Nel furgone Abu Suleyman siede davanti, in seconda fila segue il figlio, e poi ci siamo noi sparsi tra i sedili.
Parla poco, stiamo andando a trovare sua moglie, è un momento difficile.
Sua moglie è mancata qualche mese fa, in Libano, dove i siriani che fuggono dalla guerra raramente vengono accolti.
Abu Suleyman porta i segni della vita dura di chi vive in esilio e di una solitudine che gli è crollata addosso da qualche mese, lasciandolo inaspettatamente vedovo troppo presto.

Arriviamo in campagna, il confine con la Siria è molto vicino, proprio dopo le colline che ci circondano.
Intorno a noi si stendono solo campi coltivati a porri, dove altri siriani vivono e raccolgono la verdura senza sosta, per ripagare il debito contratto per oltrepassare il confine.
Il nostro mezzo si ferma e così dobbiamo continuare a piedi.
Avanziamo nel fango molle, Abu Suleyman fa fatica, si aiuta col bastone e si appoggia a turno a noi.
Suo figlio – un ragazzino silenzioso – cammina spedito, raggiunge la fine del campo e si ferma al limitare di un canaletto.
Non è un cimitero, ma un terreno incolto, dove qualcuno ha iniziato a seppellire i defunti.
I siriani fuggiti dalla guerra qui non trovano spazio nemmeno da morti.
Davanti a noi ci sono una decina di tombe, alcune ricoperte completamente di erbe selvatiche e alcune fresche; una più piccola, delimitata da sassi bianchi, ospita un bambino.
Davanti a una di esse, una famiglia legge il Corano e prega per l’anima del proprio caro appena sepolto.
La moglie di Abu Suleyman giace sotto un’alta coltre verde, che cerchiamo di estirpare, rimpiazzandola con fiorellini gialli di campo. Ci sporchiamo le mani col fango, è piovuto molto a gennaio e la terra è un pantano.
Ci troviamo a compiere un atto di pietà umana: da quando aveva detto addio a sua moglie, Abu Suleyman non era mai tornato sulla sua tomba.
Oltre alla distanza da casa e alla scomodità del viaggio, infatti, Abu Suleyman corre il rischio di essere arrestato a uno dei posti di blocco che si incontrano lungo la strada.
Da queste parti, i siriani non possono nemmeno recarsi a questo cimitero improvvisato per visitare i propri defunti; al dolore della perdita si somma il timore di essere fermati nel tragitto.
E un controllo sui mezzi pubblici può trasformarsi in detenzione in un altro luogo di dolore, un’ulteriore umiliazione rispetto a una situazione già precaria e di emarginazione assoluta.
Il panico dell’arresto si legge nel volto dei siriani che siedono accanto a noi, ogni volta che il furgone attraversa un posto di blocco: gli occhi si muovono velocemente, il respiro si paralizza, la tensione satura l’aria.
Dopo aver ripulito le tombe come possiamo, tributiamo un pensiero a chi riposa sulla riva del canale, in silenzio, ognuno secondo la propria fede.
Qualche rana saltella nell’erba.
E noi siamo novelli Enea, traghettatori in un altrove ostile del vecchio Abu Suleyman caricato sulle spalle e del giovane figlio preso per mano, in fuga dalle rovine di una Siria ancora in fiamme.

Sara