Tutti hanno bisogno di speranza

Qui al campo una delle prime sensazioni e di non sentirsi mai l'ultimo arrivato.
Tutti accolgono il volontario come se avesse sempre fatto parte della loro famiglia.
E non importa se non ti conoscono bene o tu non parli bene la loro lingua.
Vogliono che si instauri subito un rapporto di fiducia, perchè tu possa essere attento ad ascoltare i loro vissuti, e ad entrare silenziosamente nella loro quotidianità.
“Si sono stato dalla polizia, volevano prendere le mie impronte digitali. Poi mi hanno picchiato, bendato e messo con la faccia contro il muro per 5 ore”.
Così ieri sera ci confida Abu Arun dopo averci offerto una buonissima cena.

La moglie dice che non è la prima volta che lo chiamano e ogni volta non sa quando potrà tornare a casa.
Ha persino atteso tre giorni una volta, ed è difficile mantenere una mente lucida in quei casi. Andiamo a letto con molte domande.
Cosa potevamo fare noi?
Siamo tanto piccoli e vulnerabili ma a volte anche sabotatori di una quotidianità che nessuna persona dovrebbe essere costretta a vivere.
L'indomani alzata presto, verso le 6 del mattino.
Noi volontari usciamo lentamente dalla tenda ancora nel torpore di qualche sogno, facendo piano per non disturbare quell'atmosfera mattutina che permea il campo profughi.
E' molto diverso senza i bambini che corrono ovunque e senza le loro voci.
“Sabah alhker ya shabab!”.
“Buon giorno ragazzi!”.
Bilal è già fuori con un sorriso stampato, lui non ha dormito, anzi non dorme da quando ha saputo che stamattina si sarebbe dovuto recare all'ambasciata Francese a Beirut con la sua famiglia. Sembra possa partire con un Corridoio Umanitario.
Dopo gli ultimi preparativi ci mettiamo in strada.
Bilal ha 22 anni, sua moglie 20 e due bambini, Kaddura di 3 anni e Walid di pochi mesi.
Bilal ha imparato qui in Libano il mestiere di carpenterie e si è specializzato nei rivestimenti esterni dei palazzi.
Ha sempre lavorato illegalmente perché come tutti i siriani non gli è concesso alcun permesso.
Ogni giorno ha rischiato di essere arrestato nel tragitto per andare al lavoro, senza avere nemmeno la garanzia di ricevere poi una ricompensa.
Sentirsi come schiavi si aggiunge a una routine già difficile nel carcere di questa terra chiamata Libano.
Hiba, la moglie, si prende cura dei bambini, esce poco dalla tenda.
Ci dice che alla sera dopo aver messo a letto i figli, si mette a studiare attentamente Francese.
E' così diverso dalla loro lingua madre ma è decisa a impararlo.
Non credevano alla notizia, ma ora forse è più che mai realizzabile.
Anni di attesa in un campo profughi accesi dalla possibilità di ricostruire una vita in un altro Paese.
La mente può finalmente abbandonare quel pensiero martellante di fuggire coi barconi o di rassegnarsi a una vita fatta di giornate che si deteriorano nei pensieri di tornare nella propria vecchia casa, da tempo ormai solo macerie.
Si sono vestiti con i migliori abiti che possiedono, cercando di mantenere strette nella mente le poche parole di francese che sanno per non fare brutta figura in ambasciata.
Poco prima di entrare Bilal si pulisce le scarpe con un fazzoletto, è ora di entrare.
Torniamo in serata al campo.
Si festeggia come se già fosse decisa la sua partenza non sicura.
Ma tutti hanno bisogno di questa speranza, che risolleva per un attimo gli animi intorpiditi e ci fa dimenticare dove siamo.
Un altro giorno ormai è passato, rumori sordi provengono ancora da qualche tenda.
Lacrime asciugate dalle stufe a gasolio.
Una famiglia va a letto con una speranza in più.
Ma il canale degli aiuti è stretto, si riduce per molti la speranza di partire da qua mentre si cementa una vita stagnante da profughi, futuro che non c'è, mai c'è stato da quando sono arrivati qui.
Alessio